OLINDO RAMPIN | A Modena c’è un pezzo di città che ama, quasi più del duomo romanico di Lanfranco e Wiligelmo, un quartiere di periferia che si chiama Villaggio Artigiano. Lì sorge OvestLab, cattedrale laica retta da una comunità di donne che su quel sobborgo hanno scritto un bel libro a più mani, Guida del villaggio artigiano di Modena Ovest, e che da quasi vent’anni dirigono il festival Periferico, avendo stabilito in quell’ex laboratorio di falegnameria il loro quartier generale. All’esterno, illuminato da festoni di lampadine e animato da tavoloni e panche da sagra su cui si mangia vegano e si beve vino e birra, aleggia un antico e gradevole senso di spartana provvisorietà.
Il fatto è che dentro quel disadorno edificio accade qualcosa che non ha nulla di provvisorio. È una danza, o forse un’anti-danza, di rigorosa e preziosa fattura, eseguita da tre performer che parlano altrettanti linguaggi corporali, con una sintassi e un lessico aguzzi, potenti e polimorfi. Il titolo dello spettacolo, presentato in anteprima nazionale, è Voice over, l’autrice è Paola Bianchi, le tre danzatrici sono Barbara Carulli, Sara Cavalieri e Valentina Foschi, cui fanno da sensitiva cornice cinque “custodi”, espressioni del territorio.
In una attraente semioscurità l’ottetto abbozza due sacre conversazioni al ralenti: quasi un prologo misterico da cui le tre danzatrici si staccano per dare inizio a un’ininterrotta composizione di propulsioni, implosioni e cadute. Traducendo in atti indicazioni che ricevono per mezzo di auricolari, alimentano ben presto un teorema di danze sulle ginocchia, in cui il movimento è originato da eruzioni improvvise, in una implacabile contorsione e sollecitazione femoro-rotulea e malleolare. È un collaudo poetico e coreografico della mirabile ingegneria di cartilagini, legamenti, tendini, articolazioni e muscoli di cui è composta l’anatomia umana.
Quasi non ci si avvede della mancanza di un vero e proprio supporto strutturato di luci, scenografie e corredo musicale. Due gelidi fari da cantiere e qualche luce bianca si uniscono a un tessuto sonoro fatto di rumori di realtà, vociare di folle, scampanii, radioline accese con cavatine tratte da opere liriche, qualche accenno pianistico, lievi effetti elettronici. È un impasto fonico-luministico che delega la totalità semantica del discorso alla trinità di corpi che, ormai ce ne avvediamo, vive un sempre più irrequieto e profondo dramma motorio, dove il corpo sperimenta estremisticamente la propria pieghevolezza, la propria interna inquietudine, e attraverso cui, leggiamo nelle note di regia, vuole provare a trasmettere, a ottant’anni dalla Liberazione dell’Italia dal nazifascismo, quell’indicibile esperienza.
Ora dal gruppo si stacca Sara Cavalieri, gli occhi e i sopraccigli scuri e grandi, il volto di infantile espressività, la chioma da enfant sauvage che contiene a stento la coda di cavallo scarmigliata e lunghissima. Alta figura di airone, organizza un suo personale poemetto fatto di intarsi a mezzo busto, dove le ginocchia sono nuove ipotesi di piedi. Le braccia, il dorso e le lunghe gambe vivono una tensione ininterrotta di slogature, distorsioni e crolli: perenne motus corporis che, proprio perché senza parole, è un ancor più penetrante motus animi.
Ora anche Barbara Carulli e Valentina Foschi, una dopo l’altra, compongono assoli di eterodossa motilità, decaloghi di spasmi, distonie, discinesìe e torsioni innaturali. Diversa però è la loro sintassi motoria, perché diverso è il loro corpo, più compatto, i fasci muscolari più pronunciati, benché flessuosi: nei femori, nel dorso, nelle braccia. Ora la trama sonora sembra rimandare a rumori di guerra, a un pubblico vociante di un incontro di box con i segnali di fine e inizio round, a qualche verso stravolto di uccello, a un rumore come di puntina di giradischi che gira a vuoto. Sara Cavalieri, che aveva trovato una momentanea liberazione con una serie di piroette, è di nuovo a terra e guarda il pubblico negli occhi, mentre si contorce e assume forme impensabili.
Più in fondo anche Barbara Carulli si affranca temporaneamente e sfrangia il corpo in una serie di ampie volute, fatte di spinte e controspinte che dalle braccia si irradiano con un moto vibratile ed esatto all’addome e alle gambe. Ricongiungendosi circolarmente all’esordio, una semioscurità avvolge la conclusione dello spettacolo, in cui il terzetto aggiunge ulteriore accelerazione cinetica all’inesauribile moto dei corpi, che per la prima volta si abbandonano a una respirazione affannosa, per sedersi finalmente insieme, in un’immobilità dominata da un lungo, liberatorio, umanissimo ansimare.
Il mattino dopo partecipiamo a due performance, che si connettono con lo spazio urbano e implicano una significativa o lieve adesione degli spettatori. La prima, Where do we come from, what are we, what are we going 2.0, ideata dell’artista cinese Wang Chong e adattata nella versione italiana da Jacopo Panizza, è un gioco di ruolo per quattro spettatori che, indossate le cuffie, sono guidati dalle indicazioni di due personaggi, un padre e un figlio. È un itinerario in forma di copione teatrale da provare in diretta, un bestiario fantastico e metaforico dove quattro cittadini impersonano un maiale, una zanzara, una tartaruga ed Edward Snowden. Le loro avventure tra naufragi, confinamenti, fughe, accoppiamenti, gravidanze, amicizie si svolgono tra corridoi ed esigue stanzette disseminate di oggetti d’uso quotidiano e avvisi, cartelli segnaletici manoscritti o disegni proiettati sulla parete.
È un ludo allegorico comunitario che tocca con toni lievi ma netta schiettezza i temi scottanti della gestione repressiva dell’immigrazione e della società del controllo globale, che infrange la privacy e conculca il diritto a una libera informazione. Il finale è la scoperta di uno spazio urbano che, fossi modenese, diventerebbe un luogo del conforto: il gioco termina sotto la chioma di un grande, meraviglioso leccio, che dà il nome a un Cortile. Un antico essere vivente di rara bellezza che merita di sopravviverci, come del resto avverrà.
Se il Cortile del Leccio e le stanze in cui si è svolto il piccolo romanzo di formazione di Wang Chong garantisce un ambiente protetto ai cittadini coinvolti, Walking definitions di Eléctrico 28 si svolge, al contrario, in Piazza Mazzini, uno spazio pubblico fortemente frequentato dove si fronteggiano sui lati corti la Singagoga, di grandi dimensioni, e la Via Emilia nel tratto di congiunzione con Piazza Grande, mentre la successione di attività commerciali sui lati lunghi e una piccola area a verde prospiciente la Sinagoga promuovono una vivace presenza di residenti e turisti. Qui gli interpreti costruiscono un dizionario urbano, fruibile tout public, felicemente debitore della rodariana grammatica della fantasia. Un albero, un piccione, una soldatessa, l’erba, un bambino, il gelato, la pizza, un manichino, i passanti, diventano altrettante persone e oggetti che verranno ridefiniti con invenzioni fantasiose umoristiche, che ci spingono, però, a osservare con occhi più consapevoli lo spazio urbano, che di solito attraversiamo senza nemmeno guardare. Ci forniscono così uno strumento di riappropriazione pubblica della città, promotore di un nuovo senso di appartenenza e di un modo più immaginativo di guardare il mondo esterno.
VOICE OVER
ANTEPRIMA NAZIONALE
concept e coreografia Paola Bianchi
creazione e danza Barbara Carulli, Sara Cavalieri, Valentina Foschi
con il coinvolgimento di Francesca Antonino, Claudia Balboni, Silvia Berti, Giada Longo, Ilaria Lusetti, Arianna Macrì e Beatrice Vacca per Periferico, Modena
sound design Stefano Murgia
lighting design Paolo Pollo Rodighiero
collaborazione artistica Roberta Nicolai
costumi Cristiana Curreli
residenze artistiche ATCL Lazio, Teatro Akropolis, Teatro Galli Rimini
produzione PinDoc
WHERE DO WE COME FROM, WHAT ARE WE, WHERE ARE WE GOING 2.0
PRIMA NAZIONALE
testo originale Ma Chuyi
regia Wang Chong – regia versione italiana Jacopo Panizza
voci audio Marco Cavalcoli e Ahmed Lejri
allestimento scenografico per Modena Beatrice Pucci
registrazioni e disegno sonoro Meike Clarelli
produzione italiana Sardegna Teatro (Teatro di Sardegna Soc.coop Arl) e Periferico festival
Lo spettacolo è stato originariamente creato in cinese dal Théâtre du Rêve Expérimental.
Progetto patrocinato dal Dipartimento di Studi Umanistici – Università degli Studi di Torino.
WALKING DEFINITIONS
Walking Definitions è presentato a Periferico in collaborazione con Farout – Base Milano, con il sostegno di Acción Cultural Española (AC/E)
idea originale, drammaturgia e regia Eléctrico 28
testo Daniela Poch, Clàudia Mirambell, Alina Stockinger con il supporto di Eléctrico 28
interpreti Stefano Iagulli, Serena Ferraiuolo, Clàudia Mirambell, Alina Stockinger
musica Jakob Rüdisser e altri