OLINDO RAMPIN | Da piccoli il nome Groenlandia voleva dire un paesaggio misterioso attraversato da gioiose slitte trainate da Husky e punteggiato da irresistibili igloo. Non sapevamo che in quell’interminato spazio era in atto l’ennesimo genocidio culturale, uno dei tanti perpetrati dagli Stati più forti sulle comunità confinanti più deboli.
Oggi l’alcolismo e il suicidio sono diffusissimi tra le popolazioni native, gli Inuit. L’irruzione della modernità in una cultura particolare con caratteristiche uniche, la promozione di stili di vita di facile seduzione dell’Occidente capitalistico, lo sfruttamento delle risorse, il razzismo che alimenta questi comportamenti sono altrettante infezioni, che nel corso della storia hanno cancellato civiltà molto meno fragili di quella Inuit.
Della Groenlandia e dei suoi nativi ci parla il primo di tre spettacoli che abbiamo visto al Festival Aperto, organizzato da I Teatri di Reggio Emilia. Presentata come novità assoluta, diretta da Fabio Cherstich, che firma anche luci e scene, scritta da Guido Barbieri e concepita musicalmente da Massimo Pupillo, Lo sciamano di ghiaccio è un’opera ibrida, un organismo in continua e ardita oscillazione tra musica e film, tra espressione artistica e reportage documentario.
Già nel titolo contiene una parziale “ambiguità”: chi aspettasse di vedere e sentir parlare uno sciamano, figura in effetti ancora presente in quella comunità, verrebbe deluso. Alla fine dello spettacolo scoprirà invece dalla voce di Robert Peroni, sud-tirolese emigrato in Groenlandia, che a suo parere è il ghiaccio stesso, protagonista di quei luoghi, a essere “lo sciamano”.
Ci chiediamo: lo sciamano, quello vero, non avrà voluto parlare, come presumibilmente altri nativi? Mentre sullo schermo scorre il racconto di immagini e parole della vita degli Inuit ci accorgiamo che la “sceneggiatura” deve fare i conti con il fatto che le voci dei nativi non sono forse copiosissime. Molti studiosi da tempo sottolineano come una migliore conoscenza della storia sociale e culturale degli Inuit sarebbe necessaria per la comprensione della loro cultura. “L’approfondimento di questa storia – scrivono acutamente gli studiosi Peter e Irniq – potrebbe individuare nella cultura Inuit una pratica di resistenza che contesta i presupposti fondamentali della cultura occidentale, come ad esempio la separazione tra gli esseri umani e le altre forme di vita”.
Sono dolci i flauti di Manuel Zurria e all’inizio dello spettacolo creano un ambiente emotivo carico di una malinconia solenne. La trama sonora si intreccia via via con sonorità cupe, gravide di interna inquietudine, man mano che emergono e dominano il live electronics di Massimo Pupillo e la tastiera di Oscar Pizzo. Scorrono le immagini: Husky affaticati dalla corsa e dal peso della slitta o feriti dalle redini intrecciate alle zampe; giovani dentro la triste parodia di una discoteca o di merci scaffalate in un misero supermercato; poche casupole colorate e precarie aggrappate al ghiaccio come per caso, prive di una relazione. Ma dalla melanconica texture della musica dal vivo con quelle immagini si solleva la strana serenità della voce e del volto di Karina Moeller. Artista nativa residente in Danimarca, vestita di una sua policroma mantelletta, un sorriso sognante che le proviene da chissà quali fonti interiori di tranquillità, la cantante scioglie di volta in volta la tensione emotiva accumulata con dolcissime modulazioni vocali della tradizione Inuit.
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Prima che inizi In Comune, lo spettacolo di danza firmato da Ambra Senatore per il Centre Coréographique National de Nantes, danzatrici e danzatori entrano già in scena, vestiti degli abiti di ogni giorno, camminano con passo informale, guardano verso il pubblico come fossero essi stessi spettatori finiti sul palco per caso. È il primo segno forte dello spettacolo, che capiremo poi essere il primo passo della volontà autoriale di una condivisione con il pubblico della traiettoria tracciata dalla coreografia: un cammino difficile ma necessario di dodici solitudini alla costruzione di una comunità, di un gruppo, di una piccola polis.
Di una compagnia, in fondo, perché non è forse vero che quel piccolo organismo formato da giovani performer, ancor più se numeroso e di diversa origine, come in questo caso, che dormono, mangiano, vivono insieme per mesi durante la produzione e la tournée di uno spettacolo, è in fondo uno dei laboratori esistenziali in cui si impara a vivere perché occorre negoziare, mettersi nei panni dell’altro, superare i conflitti, cooperare? E chissà, magari si può imparare anche ad amare.
Diciamocelo così, per celia: oggi in Francia, e men che meno nel resto di una smarrita Europa, non è visibile all’orizzonte lo spazio storico non si dice per una Commune che si ispiri rinnovandola a quella parigina del 1870, ma per un qualsiasi tentativo di democrazia non formale, radicale, che superi la ferocia capitalistica con le sue disumane aberrazioni. E allora qualche piccola soddisfazione può darla anche solo la costruzione di una utopia in miniatura qual è la messa In Comune di vite e di esperienze, regolate da patti e accordi non scritti ma non per questo meno fondanti.
Quando inizia lo spettacolo le sei danzatrici e i sei danzatori che attraversano la scena camminando velocemente, ognuno per la sua strada come in una metropoli quando calano le luci della sera e ognuno fa ritorno al proprio guscio-casa protettivo e al tempo stesso opprimente, sono ancora ben lontani dal comprenderlo. A poco a poco però si formano duetti e terzetti che si scompongono e si frantumano, ma a volte si trasformano in nervosi e vitali quartetti e quintetti, dove gli arti e il volto sembrano percorsi da una perenne agitazione motoria, da una tensione verso qualcosa che deve accadere, disegnando volute e corse che appaiono come versioni non troppo strutturate di gesti reali del quotidiano stilizzati e riorganizzati.
Intanto viene pronunciato qualche breve racconto dal sapore di apologo, con animali per protagonisti. Formiche, felini, lupi sono altrettante allusioni ai comportamenti umani, di solidarietà o di sopraffazione, di unione o di egoismo. Finché il casus belli, il furto di un sandwich dal frigorifero, sembra rimandare proprio a un classico litigio da nulla, proprio di quella vita comunitaria, in una foresteria o in un appartamento in affitto, in cui giovani performer convivono nella loro vita nomade, di città in città. E la ricucitura avviene attraverso una unione corporea, di mani che si intrecciano e si estendono agli spettatori, rompendo la divisione tra pubblico e platea e collegandosi a quel prologo in cui, in qualche modo, è come se i performer avessero guardato gli spettatori per studiarli, per saggiarne la disponibilità al contatto.
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Ci spostiamo dal Teatro della Cavallerizza alla Sala Verdi del Teatro Valli, dove è in programma Athletes-Reggio Emilia di Simona Bertozzi-Nexus, e già mentre saliamo la grande scalinata che porta al primo piano sentiamo un rumore e una voce che ci sono stranamente familiari. Non hanno niente a che vedere con il teatro o con la danza, sono identici a quelli che sentivamo da ragazzi quando a Venezia salivamo le grandi scalinate che portano al primo piano della Scuola Grande della Misericordia, cinquecentesco edificio del Sansovino trasformato in palasport, dove giocava la squadra di basket cittadina.
È lui, è il rumore indelebile delle scarpe da ginnastica che strisciano sul parquet unito alle indicazioni e alle invocazioni di sostegno urlate ai compagni di squadra dall’allenatore o dagli atleti stessi tra loro. Come nel clamoroso cambio d’uso veneziano, anche la storica sala Verdi è riattata a credibile, perfetta palestra dove una giovane e robusta atleta si muove sola, mimando fasi di gioco e incitando invisibili compagne.
Ma ecco che entra in scena Simona Bertozzi: corre a cerchio, tiene con le mani un drappo leggero che le ricade sulle spalle e raffigura le meravigliose atlete ritratte a mosaico nella romana Villa del Casale, a Piazza Armerina in Sicilia. Non è una immagine casuale, è il vessillo che dà la direzione di significato a quella che è ancora la costruzione di una comunità, stavolta di sole donne, in cui lo sport, il movimento, nella sua accezione agonistica o amatoriale, si unisce alla danza ed è per sé stesso un tramite di rinforzo e di supporto morale, che galvanizza la costruzione e la gestione del collettivo. La scena è tutta occupata da donne di età diversa che si mescolano a quattro danzatrici, si fondono, ognuna con il suo linguaggio, con le sue possibilità, con i suoi limiti, che sono però la misura della verità della loro unione solidale.
Dall’assemblea mobile si stacca ora il quartetto composto dalle danzatrici Arianna Brugiolo, Federica D’Aversa, Paola Drera, Valentina Foschi. Ora con credibile e tesa coerenza linguistica, danza e sport tentano una sorprendente fusione dialettica di grammatiche, di lessico, di sintassi. Si evocano con breve intensità diverse discipline e sono funzionali allo scopo i corpi delle performer così diversi l’uno dall’altro. Federica D’Aversa alta ed elegante, gli occhi scuri e attoniti, la lunga treccia e la scriminatura centrale nei capelli scuri e raccolti che la fa rassomigliare quasi a una giovane indiana d’America; Valentina Foschi, la bionda figura più compatta, di atletica tonicità muscolare, che sembra consentirle di imprimere ai suoi esercizi una esattezza sicura e noncurante della difficoltà; e poi Arianna Brugiolo e Paola Drera, anche loro difformi nei capelli, nella figura, nella corporeità, nel volto. Eppure tutte e quattro insieme capaci di unire bravura tecnica e forza d’interpretazione, nei volti una gioia e una dedizione che rendono quello che stanno facendo quasi un rito, che non smette però di essere un gioco.
Quando si riforma nuovamente la comunità completa di danzatrici, atlete ed ex-atlete espressione del territorio, la voce di Meike Clarelli compie il piccolo miracolo di rifare Bach con la tecnica di un motivetto pop ma con l’esattezza di tutte le note sublimi dell’’autore tedesco, e di dirigere quindi le Athletes al completo in un coro che danza e canta Il mondo, senza che appaia alcuna soluzione di continuità, caduta di livello e di stile o forzatura tra il genio barocco di Eisenach e il cantante di musica leggera novecentesco Jimmy Fontana.
LO SCIAMANO DI GHIACCIO
novità assoluta
musica di Massimo Pupillo
canto tradizionale Inuit Karina Moeller
drammaturgia Guido Barbieri
direzione musicale Oscar Pizzo
video Piergiorgio Casotti
regia, luci e scene Fabio Cherstich
voce Karina Moeller
live electronics Massimo Pupillo
tastiera Oscar Pizzo
flauti Manuel Zurria
coproduzione Ravenna Festival – Festival Aperto / Fondazione I Teatri Reggio Emilia – Transart Festival Bolzano
IN COMUNE
coreografia Ambra Senatore in collaborazione con gli interpreti
in scena Youness Aboulakoul/ Philippe Lebhar, Pauline Bigot, Pieradolfo Ciulli, Matthieu Coulon Faudemer / Louis Chevalier, Lee Davern, Olimpia Fortuni, Chandra Grangean, Romual Kabore, Alice Lada, Antoine Roux-Briffaud, Marie Rual, Ambra Senatore
musiche originali Jonathan Seilman
luci Fausto Bonvini
musiche originali Jonathan Seilman
produzione Centre Chorégraphique National de Nantes
coproduzione Le Théâtre, Scène Nationale de Saint-Nazaire; Théâtre de la Ville de Paris; le lieu unique, Scène nationale de Nantes; KLAP Maison pour la danse in corealizzazione con ZEF, scène nationale de Marseille; DSN, Scène nationale de Dieppe.
ATHLETES – REGGIO EMILIA
concept e coreografia Simona Bertozzi – Nexus
preparazione vocale e direzione coro Meike Clarelli
danzatrici Arianna Brugiolo, Federica D’Aversa, Paola Drera, Valentina Foschi con atlete, ex atlete e donne del territorio
musiche originali Meike Clarelli, Davide Fasulo
costumi Katia Kuo
Festival Aperto – Reggio Emilia | 25 e 29 settembre 2024