ELENA SCOLARI | Dino De Laurentiis, tra i maggiori produttori cinematografici italiani, chiede ad Alberto Sordi di fare una scena di ballo nel suo prossimo film, Sordi rifiuta recisamente, indignato perché dopo La grande guerra (Mario Monicelli, 1959) non accetta più di ‘risolvere’ i film facendo il pagliaccio: “Sono diventato un attore importante, mo’ basta. Non mi convincerai, non c’è argomento che tenga”. Dopo qualche moina che sembra inutile, De Laurentiis si secca e “Allora sai che c’è? La faccio fare a Gassman la scena di ballo!”. Sordi esce sbattendo la porta per rientrare pochi secondi dopo a passo di danza: “Così, la vuoi, Dino?”.
Questo sketch, in Tanti Sordi. Polvere di Alberto di Frosini/Timpano (ideato insieme a Lorenzo Pavolini e con Elvira Frosini, Daniele Timpano, Marco Calvalcoli e Barbara Chichiarelli in scena) è invece realizzato con Sordi/Timpano e Pasolini/Cavalcoli come regista. In questo patetico servilismo sta uno dei tanti perni tematici dello spettacolo, in cui si fa cenno alla galleria di vizi italioti che i personaggi interpretati da Sordi nei suoi più di 160 film (!) hanno esemplificato, muovendo più bonomia che fastidio. Opportunisti, ipocriti, qualunquisti, pavidi, profittatori, questo erano il tassinaro, il moralista, il medico della mutua, il marchese Del Grillo… E fin qui niente di nuovo.
La scena si apre (e si chiude) con Elvira Frosini seduta sgraziatamente su una sedia, indossa un abituccio giallo come le scarpe; nonostante la magrezza fa subito pensare alla moglie cicciona di Le vacanze intelligenti (l’episodio è diretto da Sordi, 1978; lei è Anna Longhi), la fruttarola romana scambiata per una installazione alla Biennale di Venezia. Frosini chiama Daniè con lei e insieme agli altri interpreti vengono rievocati i funerali dell’Albertone nazionale: il 27 febbraio 2003 c’erano 250.000 persone a salutarlo, un aeroplano sorvolava piazza san Giovanni a Roma con lo striscione “C’hai sempre fatto ride, stavolta c’hai fatto piagne”, hanno parlato Veltroni, Verdone, Scola, Proietti; nei loro panni si avvicendano al microfono del discorso funebre i quattro attori mentre a turno gli altri formano un crocchio di criticoni con una buona parola qualunquista per tutti. Perché Albertone è stato tutti noi. E anche qui niente di nuovo.
La prima parte di Tanti Sordi giustappone, in maniera spezzettata, balletti trash volutamente mal eseguiti, canzoncine da avanspettacolo che volutamente non fanno ridere (musiche e progetto sonoro di Ivan Talarico), commenti a parte a volte sprezzanti a volte banali, in un continuo saltellare da una parte all’altra della corda. Non è un omaggio a Sordi ma non è nemmeno la sua demolizione. Nessuno dei quattro lo imita, tutti se ne fanno ispirare, chi per la risata, chi per l’accento, chi per il movimento disarticolato. Anche la scenografia è modesta, fatta di quinte bianche mobili, qualche sedia qualunque e una pianta da sala d’attesa del dentista.
La volontà di rileggere il passato per capire meglio il presente è stata sempre il faro dei due artisti romani: Mussolini, Aldo Moro, il Risorgimento, i coniugi Ceausescu, il colonialismo, i futuristi, la rivoluzione francese. Qui si guarda alla ‘maschera’ Sordi per provare a capire qualcosa dell’Italia-Italietta di oggi, e si pescano alcuni aspetti meno noti: dallo sketch citato prima a E il Casanova di Fellini?, film/documentario del 1975 diretto da Gianfranco Angelucci e Liliane Betti in cui Fellini sottopone vari attori – tra cui Sordi – a provini per il ruolo di Casanova. Gli autori riproducono anche questo, con Frosini e Chichiarelli a valutare Cavalcoli in parrucca, escluso dal cast per questioni di patriarcato e maschili sovraestesi. L’altalenare tra lo scherno altezzoso e il riconoscimento di Sordi come un “fenomeno” estetico, sociologico, politico da analizzare non dice mai chiaramente da che parte stiano gli autori dello spettacolo, per questo il lavoro risulta sfuggente e si fatica a trovarne il bandolo.
Affermare che un certo basso nazionalismo, oggi in rinascita, abbia parentela con il contesto dell’Italia degli anni ’60 e dei film che la raccontavano è probabilmente giusto ma non originale. L’assalto ai maccheroni quello diceva, in fondo. Forse da lì credevamo di esserci affrancati e invece no: oggi abbracciamo il grana padano come esempio dei “valori italiani”.
La seconda parte brilla nel momento della tirata di Goffredo Fofi/Tiresia ben interpretata da Chichiarelli in tunica, benda sugli occhi e bastone, accompagnata da un bravissimo Calvalcoli che la guida. Il critico che, come il mitico indovino cieco, vede ‘la verità’ e trincia giudizi a destra e a manca (in romanesco) su grandi attori e registi, come se a ogni passo potesse abbattere o glorificare, è un’idea molto bella e incisiva.
L’incedere del lavoro risulta sfilacciato, senz’altro scientemente, ma gli ingranaggi ancora da oliare rendono i ritmi un poco stentati e non costruiscono una sconclusionatezza di cui si possa leggere il fine. Dove vogliono andare a parare gli autori? Vogliono dirci che Sordi non è solo quel che appare? Che ci sono tanti Sordi? Vogliono dileggiarlo ma dicono anche che non ce lo meritiamo, vogliono parlare di un modello pop ma ricamandoci intorno in modo postmoderno: parlano di un ‘oggetto’ della cultura di massa ma sanno di rivolgersi a una nicchia: siamo arrivati al Piccolo Teatro ma è vero successo? Noi i sordi non li abbiamo fatti, oggi i sordi li fanno quelli che passano dalla TV, dicono gli attori dentro la pièce.
Il pop è un richiamo esplicito anche nell’immagine di locandina dove Sordi si moltiplica in tanti ritratti alla Warhol; il denaro richiama il film Polvere di stelle (regia di Sordi) in cui una compagnia sgangherata cerca di fare soldi durante la guerra, così nello spettacolo gli attori si chiamano per nome per chiarire che interpretano loro stessi. Sono tutte informazioni e rimandi che testimoniano una ricerca attenta ma mostrano anche l’oscillare indeciso tra alto e basso – come per la citazione di Marina Abramovich nel finale – che in conclusione rende tentennante la posizione dei creatori.
La voce off di Sordi riprodotta dall’intelligenza artificiale e i quattro attori che con espressione dura fanno il gesto dell’ombrello agli spettatori – come ai lavoratori ne I vitelloni – sarebbe stata una chiusa cupa, cinica e penetrante. E sarebbe stata in linea con l’incoerenza drammaturgica scelta come de-struttura.
Frosini, Timpano e Pavolini firmano uno spettacolo non facile da afferrare, e forse la vera originalità sta proprio qui: Tanti Sordi è elusivo, scivoloso come lo è lavorare sul monumento della comicità italica.
TANTI SORDI. POLVERE DI ALBERTO
un progetto di Frosini/Timpano e Lorenzo Pavolini
testo Elvira Frosini, Daniele Timpano, Lorenzo Pavolini
regia Elvira Frosini e Daniele Timpano
con Marco Cavalcoli, Barbara Chichiarelli, Elvira Frosini, Daniele Timpano
musiche e progetto sonoro Ivan Talarico
disegno luci Omar Scala
scene e costumi Marta Montevecchi
realizzazione scenografie Officina Scenotecnica Gli Scarti
collaborazione alla regia Francesca Blancato
fonico Marco Oligeri
organizzazione e distribuzione Laura Belloni
produzione Scarti – Centro di produzione teatrale di innovazione, Viola Produzioni/Sala Umberto, Romaeuropa Festival, residenze Urbino Teatro Urbano, Fondazione Ca’ Romanino, Teatro Popolare d’Arte, Catalyst
Teatro Studio Melato, Milano | 9 ottobre 2024