ELENA SCOLARI | Le storie strampalate sono spesso appassionanti, proprio perché imprevedibili e dallo sviluppo sgangherato e scoppiettante. Le storie dei truffatori, se ci sanno fare, sono piene di invenzioni e non annoiano mai. E Il fenomeno Laplante (produzione Fondazione Luzzati – Teatro della Tosse) è la storia di un truffatore: il sedicente principe indiano pellerossa White Elk, nato Laplante in Canada nel 1888 e sbarcato in Europa e poi in Italia nel 1924 per promuovere un film western americano in cui recitava come comparsa. L’uomo è cantante e ballerino ma in America smerciava anche farmaci miracolosi. Durante il tour europeo è passato dalla Francia e a Nizza ha conosciuto due contesse italo-austriache, madre e figlia, le quali – affascinate dall’eccentrico personaggio – lo invitano in villeggiatura nella loro tenuta italiana. L’indiano fa l’indiano e ne approfitta, ha nel frattempo subodorato che una finta adesione alla causa autarchica fascista avrebbe potuto ben sposarsi con la causa Pellerossa. E così un indiano d’America mette la camicia nera sotto la palandrana ricamata e, sovvenzionato a credito dalle contesse, comincia l’opera – fasulla – di sensibilizzazione sui beni dei nativi (oro, diamanti e petrolio) sequestrati dagli U.S.A., rimbalzando per le città italiane e costruendosi un folto seguito di fanatici ammiratori.
Come è facile immaginare sarà smascherato ma lasciamo scoprire come ai prossimi spettatori.
Tutto ciò è – sommariamente e in maniera meno lineare – messo in scena da Emanuele Conte (regia) con l’interpretazione di Luca Mammoli, Enrico Pittaluga e Graziano Sirressi, in uno spettacolo che si definisce “un cabaret comico, futurista nello stile e politico nei contenuti”. I costumi, bellissimi, di Danielle Sulewic, sono indubbiamente futuristi: tre frac, ognuno con un colore del tricolore italiano come base, percorsi da lampi neri a zigozago zot. Di ispirazione futurista sono anche i tre pannelli che costituiscono un piano inclinato e che riportano la grafica delle pubblicità Fiat o Campari mescolate alle geometrie di Depero; futurista è forse anche l’irriverenza dello stile generale perché si miscela l’aneddotica buffa su questo furbo ciarlatano impiumato ai fatti mussoliniani paralleli, soprattutto il vergognoso omicidio Matteotti. Anche se, per una sorta di doveroso pudore, le parti di descrizione storica intorno al delitto sono dette senza scherno, come lette da un manuale, situate però tra lazzi a volte grossolani e forse fin troppo ingenui, benché tecnicamente molto ben eseguiti.
Sostanzialmente White Elk intorta qualche ricca signora, si accattiva il favore di una parte di popolo italiano lanciando banconote (non sue) dai balconi dei Grand Hotel dove alloggiava, dilapida denari in prestito, si ingrazia alcuni pezzi grossi, gira in gloriosa tournée di millanteria in millanteria.
Nello spettacolo si ripete più volte che tanti cittadini comuni hanno sottovalutato il fascismo pensando che sarebbe durato poco e che “la pagliacciata” si sarebbe chiusa presto. A sinistra della scena ci sono infatti tavolini e sedie da bistrot dove i tre attori si trovano a leggere il giornale e impersonano alcune delle miopi opinioni che circolavano.
Per via dell’andamento cabarettistico del lavoro, le scene (e scenette) si susseguono senza la preoccupazione di tenere sempre una linea drammaturgica logica e si indulge a una comicità insistita tenuta accanto alle terrificanti notizie sul deputato socialista assassinato. Lo stridore che ne deriva rischia però di produrre un malinteso: se l’autore Maurizio Patella vuole suggerire un parallelo tra la creduloneria della gente che si è fatta abbindolare dal carismatico capotribù e una uguale sprovvedutezza che l’avrebbe portata a cadere nella rete dittatoriale a causa dell’istrionismo di Mussolini, si pecca per almeno due ragioni: primo perché la faciloneria non è stata l’unico motivo per cui il fascismo ha avuto successo, e secondo perché questo è un modo pericoloso di autoassolversi.
Non sta a me spiegare che in molti hanno aderito alla causa nera perché erano profondamente convinti delle teorie e delle pratiche che propugnava e non perché un mattatore abile li ha turlupinati con trucchi innocenti; ridurre invece l’argomento alla macchietta limita la critica alla semplice derisione, condannandosi a una superficialità facile. Non siamo davanti alle grottesche caricature di Georg Grosz che portavano già nella grevità del segno la gravità della condanna e il disgusto per il militarismo, qui si affianca la parodia bonaria di un lestofante, in fondo quasi innocuo, alla cronaca dei nostri peggiori anni.
Mammoli, Pittaluga e Sirressi sono tre bravi attori, che si muovono molto bene sulla scena e la regia li colloca sempre con attenzione dentro lo spazio scenico, la costruzione dinamica dei movimenti è ben strutturata, il trucco è curato, le invenzioni teatrali ci sono. Molti sono dunque i buoni elementi de Il fenomeno Laplante, tuttavia queste qualità e un testo sfrontato non bastano per raccontare la contraddittorietà di anni in cui si giocava agli indiani e al contempo si ammazzavano gli oppositori del regime. Mussolini non era soltanto un capace illusionista egocentrico.
Purtroppo.
IL FENOMENO LAPLANTE
di Maurizio Patella
finalista al Premio Shakespeare is now 2021 e al Premio Riccione per il teatro 2021
regia Emanuele Conte
con Luca Mammoli, Enrico Pittaluga, Graziano Sirressi
assistente alla regia Alessio Aronne
collaborazione artistica Luigi Ferrando
luci Matteo Selis
costumi Danielle Sulewic
assistente ai costumi Daniela De Blasio
sarta Rosio Orihuela
attrezzeria Renza Tarantino
stagista Filippo Izzo
produzione Fondazione Luzzati – Teatro della Tosse
Teatro Fontana, Milano | 18 ottobre 2024