FRANCESCA POZZO / Pac Lab* | L’arte: sembra questo il tema cardine della drammaturgia ferocissima e tremendamente intelligente di Yasmina Reza. Almeno in apparenza, dato che il vero epicentro da cui parte il terremoto del plot sono piuttosto le reazioni che essa scatena; nello specifico quelle indirizzate alla tela che troneggia sul palcoscenico. Si tratta dell’opera del maestro Antrios, un quadro bianco dipinto di bianco, idolatrato da Serge (Graziano Sirressi) e schernito da Marc (Luca Mammoli). La disputa circa la genialità dell’artista conduce a un divario di potere fra i due, sposta i pesi della bilancia determinando da un lato una presunta supremazia, dall’altro una sentita inferiorità. Marc non ne può più dell’atteggiamento radical chic dell’amico: quella merda gli è costata ben cinquantamila euro, gli fa notare. Una battuta diventa così il casus belli.

Ph Donato Arquaro

Un “arbitro” viene chiamato in causa: si tratta di Ivan (Enrico Pittaluga) il quale, nonostante sia convinto che il dipinto faccia schifo, non ha il coraggio di confessarlo a Serge. Una sera i tre si ritrovano e la verità di ognuno trova il modo di emergere.
Li ritroviamo tutti vestiti allo stesso modo –occhiali e completo – salvo minime differenze: una mise che ne definisce l’estrazione sociale medio-alta. Discreta la regia che, dando molto spazio al testo, concede agli attori una naturalezza tale che a guardarli ci si sente in difetto, quasi in un’atteggiamento voyeuristico verso le esistenze altrui. Si capovolge così il gioco teatrale e sul palco sembra consumarsi la vita vera, quella che può rendere ridicoli e che costringe a recitare un ruolo. Così tre persone diventano macchiette di loro stesse: Serge con la pashmina arrotolata al collo e la puzza sotto il naso, Ivan con un infantilismo sfrenato che lo porta a citare il suo psicologo ogni due per tre e Marc con una rabbia repressa sedata solo dall’abuso di rimedi omeopatici.

Quando i tre sono in scena basta pochissimo a rendere la triangolazione verosimile: un riferimento al passato, una frecciatina, un gesto. Nei dialoghi il lavoro è di sottrazione, tant’è che c’è una perfetta sintonia anche nel litigare, nel proferire poco e nel far intendere tanto. La finta diplomazia però è smascherata durante i soliloqui, accompagnati da un disegno luci che, ironicamente, proietta a terra la forma di una tela. Un perimetro di comfort dove ciascuno può sfogarsi con il pubblico senza essere ascoltato dagli altri, rispettando la convenzione degli a parte. Una scelta che valorizza il testo, il cui potenziale comico è insito in un sarcasmo sottile e instancabile che prende di mira le nevrosi quotidiane e i maldestri tentativi di nasconderle.

Le accuse tra i due litiganti – Marc si sta necrotizzando… Serge ha comprato una merda bianca dipinta di bianco – sono castelli in aria che celano motivazioni molto più profonde: il non riconoscersi più. I due si fronteggiano ma poi si coalizzano contro Ivan, il più conciliante, che si ostina a non prendere parti. Più scorre il tempo più le accuse si fanno personali: ti sei accasciato, il tuo matrimonio andrà in malora. Al che il poverino esplode, esasperato, nella speranza di essere lasciato in pace: matrimonio, figli, cartoleria: che cos’altro può capitare? 

Ph Donato Arquaro

I toni si accendono fino all’apice della climax: di fronte alla tela bianca i personaggi metaforicamente si denudano, fermandosi e proiettando su di essa le proprie ombre. Calano così quelle maschere che si sono inconsapevolmente cuciti addosso: la misantropia di Marc si rivela una gelosia nei confronti del quadro, uno dei tanti manierismi che l’hanno fatto sentire escluso; l’intellettualismo di Serge è solo un modo per definirsi mentre la codardia di Ivan uno sforzo disperato per tenere coese le uniche certezze della propria vita. Rimangono spossati dopo la lunga battaglia che non ha risparmiato i loro vizi, i loro tic e le loro donne.

E qui la situazione non può che crollare, pensa lo spettatore: qualcuno dovrà per forza andarsene. Ma non accade: Serge chiede un pennarello a Ivan e invita Marc a disegnare sull’Antrios. Con timore lui traccia una linea, man mano ci prende gusto e abbozza la figura di uno sciatore. Il dissidio è risolto, Marc sente di aver riguadagnato la propria dignità agli occhi dell’amico. Certo, poi si scopre che l’inchiostro è lavabile e il quadro è salvo. I due ne ripristinano insieme il candore – un gesto che metaforicamente rinsalda il loro rapporto – ma ora per tutti loro l’Antrios ha una storia da raccontare: rappresenta uno sciatore che è stato inghiottito da una bufera, o almeno questo è ciò che si sono inventati, costruendo una realtà condivisa in cui si sentono accolti. A loro va bene così e anche se il soggetto del quadro non si vede, non significa per forza che non ci sia.

ART

di Yasmina Reza
Permission granted by Thaleia Productions, 6 rue Sedillot 75007 Paris, France
traduzione Federica Di Lella, Lorenza Di LeIIa  Adelphi
produzione Fondazione Luzzati – Teatro della Tosse
regia e scene Emanuele Conte
costumi Daniela De Blasio
luci Matteo Selis
assistente alla regia Alessio Aronne
con Luca Mammoli, Enrico Pittaluga, Graziano Sirressi
di Generazione Disagio

Teatro Fontana, Milano | 13 ottobre 2024

PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.