LAURA NOVELLI | Sul piccolo palcoscenico del Teatro di Villa Torlonia, gioiello di architettura scenica ottocentesca, impreziosito da dipinti e decori dai colori accesi, vi sono una quarantina di sedie e alcuni vistosi cubi di legno. I pochi spettatori ammessi ad ogni replica arrivano da una quinta laterale, siedono a formare un cerchio, si muovono con cautela, si guardano, parlano sottovoce, attendono. Già prima che lo spettacolo inizi, predomina l’intensità di un’atmosfera intima, quasi mistica, e anche la platea vuota, vista da qui, sembra un luogo “altro” dove vibra una silenziosa bellezza senza tempo. Poi arriva lei, la giovane pulzella d’Orléans interpretata dalla bravissima Mersila Sokoli (diploma all’Accademia Silvio D’Amico e lavori importanti quali, ad esempio, Anna Karenina, Il mercante di Venezia, La casa nova): abito leggero di maglia grigio-metallo che evoca la cotta dell’abbigliamento militare antico, niente trucco, piedi scalzi, capelli raccolti. E soprattutto, un volto estremamente mobile, espressivo.
Nella sua naturale semplicità, l’attrice, diretta da Luca De Fusco, si armonizza da subito con l’atmosfera sospesa della sala, ma al contempo le contrappone una fisicità concreta, un’energia materica, persino sensuale, che saprà accondiscendere, per oltre un’ora di monologo, le sublimi parole lasciateci da Maria Luisa Spaziani nell’opera Giovanna d’Arco pubblicata nel 1990. Un romanzo popolare in sei canti in ottave e un epilogo scritto tra il 1988 e il 1989 pressoché di getto: «Sembrava che i versi nascessero per generazione spontanea, e anzi devo confessare una mia strana impressione: che qualcuno mi sia stato sempre accanto a dettare». Appassionata studiosa dell’eroina francese, la poetessa ne ripercorre qui le vicende biografiche abbracciando l’ipotesi che ella non sia stata arsa sul rogo nel 1431 bensì sia riuscita a scampare alla condanna grazie alle nozze con Robert des Armoises e abbia trascorso la sua vita, pressoché da reclusa, nel castello di Jaulny, a circa trenta chilometri dalla natia Domrémy.
Non è la prima volta che De Fusco rilegge in chiave teatrale il celebre componimento di Spaziani: già nel 2004 ne aveva curato un’edizione, con Gaia Aprea protagonista, che ebbe una lunga vita scenica (ricordiamo la ripresa del 2011 e, più di recente, quella del 2021) e la cui genesi testimonia in modo emblematico il dialogo sempre fecondo tra poesia e teatro: «Maria Luisa – spiega il regista – non lo aveva scritto per il teatro, ma accettò con entusiasmo l’idea che si mettesse in scena questo suo gioiello. Lo pensammo come un colloquio intimo, quasi sommesso, antiretorico. Quasi come se alcune decine di persone si ritrovassero attorno a un fuoco ad ascoltare una storia. Ci ponemmo subito una domanda cruciale. Chi è colei che ci parla? Una pazza che si crede Giovanna d’Arco? Il fantasma della pulzella? Lasciammo volutamente nell’ambiguità la risposta».
Si annida proprio nel cuore di questa risposta mancata il desiderio di proporre quest’anno, in occasione del decennale della scomparsa dell’autrice, una nuova versione del lavoro dove la regia incede con maggiore insistenza su una pacatezza mai monocorde: il registro complessivo si fa ancora più tenue, più sussurrato, come se la materia poetica si abbandonasse a un dire confidenziale e diretto, non privo tuttavia di momenti drammatici e sofferti. Che si tratti di una creatura onirica, di un fantasma, di un’evocazione della memoria o della follia, poco importa. Giovanna/Mersila è qui, e sa indurci a trasformare l’orecchio in occhio. Cosa di più avvolgente? Di più teatrale?
«Vedevo un muro bianco: voi direste uno schermo, una storia che s’illumina. Solo un raggio scendeva, strano, obliquo, da uno squarcio di nuvole. I lillà a chiazze mi velavano un po’ il muro, mi offuscavano i sensi. La campana oltre il nevischio alta si annunciò. Da tre anni aspettavo: che cosa»: sin dall’incipit, le immagini si rincorrono velocemente una dopo l’altra e il racconto arriva chiaro, cristallino. Sembra di vedere ogni passaggio della storia. Ogni sobbalzo dell’anima. Muovendosi con risoluta dolcezza nello spazio centrale del palcoscenico e accompagnata dal bel tappeto musicale di Antonio di Pofi, anch’esso privo di tonalità ridondati, l’interprete mostra una totale padronanza del personaggio e, al contempo, dei versi: a tratti sale sui cubi che Marta Crisolini Malatesta ha immaginato come unici elementi scenici, a tratti guarda in quell’arioso vuoto che avvolge la platea. Ma soprattutto la giovane attrice scruta il pubblico; la prossimità tra lei e gli astanti è così densa di avvenimenti e parole da costituire un vero e proprio linguaggio scenico, a sua volta inscritto dentro il linguaggio generale della pièce.
Nel perimetro di questa confidenza, che viaggia su sfumature emotive quanto mai diverse, tutto trova il suo senso: le apparizioni dell’arcangelo Michele, con la loro luce e la loro forza spirituale, la descrizione della propria casa, della mano rugosa ma carezzevole della madre, della misteriosa sorella trattata come una regina. Poi arriva il tempo di diventare adulta, di recarsi al cospetto del re, di sfidare nobili, prelati e cortigiani, di scendere in battaglia contro i nemici. Ma Giovanna è sempre Giovanna, una ragazza semplice e – semplicemente – coraggiosa. E, tanto più, una donna. Una donna che attraversa impetuose esperienze da uomo restando comunque una donna. Non per niente ciò che maggiormente colpisce qui è proprio la femminilità che pervade sia l’ordito linguistico sia la bella prova dell’interprete.
E allora viene naturale pensare che la battaglia della santa francese sia, per prima cosa, una battaglia contro la superstizione, l’arretratezza, la misogenia, la prevaricazione, la violenza di genere. Il suo processo non lascia dubbi a riguardo: «Venne fuori all’aperto come esce lo scarafaggio quando sente il fuoco. “Strega e puttana!” urlò “Ti arrostiremo come il porco a Natale, te lo giuro” Piansi per ore, piansi come un fiume che senta eterna la sorgente. Vennero, visibile e invisibile, al soccorso Gilles e Michele con ottimi argomenti». Immagini, queste, che non possono non richiamare alla mente quelle dei film più celebri dedicati alla pulzella; in particolare, il capolavoro di Dreyer La passione di Giovanna D’Arco (1928), pellicola muta dove il sacrificio dell’eroina è restituito, in tutta la sua tragicità, attraverso la mimica facciale dell’interprete (Renée Falconetti ) e riprese ossessive di primi e primissimi piani.
Nel romanzo di Spaziani, tuttavia, la fede della santa non ha nulla del martirio di Cristo; semmai essa è luce, amica, conforto. Giovanna forse morì sul rogo. Forse finì i suoi giorni sposa-prigioniera di un castello solitario. Fatto sta che la consolazione del divino è stata sempre con lei. E allora ci vuole un epilogo che “scriva” teatralmente questa trasparenza immateriale: l’interprete scende in platea, viola la sacralità di quel vuoto silenzioso e in penombra, da un palchetto lontano, agisce la sua ultima visione di Michele, l’angelo combattente. È questa la sola scena solenne dello spettacolo e senza dubbio segna una cesura significativa nel composto monologo da camera cui abbiamo assistito. Sembra che esso improvvisamente cambi registro.
Ma, a bene vedere, più che cambiare direzione il lavoro in qualche modo ne acquista una nuova, squisitamente metateatrale: da confidenti di una narrazione intima, gli spettatori diventano realmente tali e la distanza da quel corpo energico, che fino a qualche minuto prima li aveva sfiorati da vicino, li riconduce, quasi per contrasto, al mistero stesso del teatro. A prescindere dall’identità storica e persino letteraria di questa fascinosa pulzella, Giovanna/Mersila è dunque soprattutto un grande, immenso, personaggio drammatico. E come tutti i personaggi drammatici, anch’ella è fatta della stessa sostanza dei sogni.
GIOVANNA D’ARCO
di Maria Luisa Spaziani
regia Luca De Fusco
con Mersila Sokoli
aiuto regia Lucia Rocco
elementi scenici e costume Marta Crisolini Malatesta
musiche Antonio Di Pofi
foto di scena Claudia Pajewski
Produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Teatro Stabile di Catania
Debutto: Castello Ursino di Catania, 18 giugno 2024
Teatro Torlonia, Roma | 12 ottobre 2024