MATTEO BRIGHENTI | Un monologo, un breve, brevissimo monologo al leggìo. Le ultime, memorabili parole del vecchio maggiordomo Firs alla fine del Giardino dei ciliegi di Anton Čechov. Legge Claudio Morganti e richiama, si impossessa e ridà vita alla magistrale interpretazione di Renzo Ricci nello storico spettacolo diretto da Giorgio Strehler. È una delle manifestazioni di immaginazione attoriale più pure che abbia mai visto. Una commovente epifania. Dura un niente, ma dice tutto sul potere del teatro. E lo fa attraverso il morire in scena, l’arte indagata in Questa volta è morto male. Questo il titolo del momento di lettura che Morganti condivide con Attilio Scarpellini e Renzo Trotta, e che fa da introduzione alla proiezione del videosaggio Il sogno di un destino. Come muoiono gli attori dello stesso Trotta.
Lo spazio che accoglie una simile evocazione è Il Lavoratorio di Firenze, pensato, fondato e diretto da Andrea Macaluso, che inaugura così la sua nona stagione teatrale, con uno dei rari ritorni di Morganti alla scena. Un maestro del teatro di ricerca che si riprende, per pochi eppur infiniti minuti, il palcoscenico, per testimoniare che la ricerca del nuovo è illusoria. Bisogna cercare, piuttosto, qualcosa di originario. È importante avere dei maestri, provare a capirli, per capirci meglio. E Morganti l’ha trovato, tra gli altri, nella presenza di Firs attraversata dal magistero di Ricci, nella sacralità di quell’atto e nella fiducia nella parola.
«Chi potrà dimenticare il decrepito Firs di Renzo Ricci? – scrive Angelo Maria Ripellino su L’Espresso del 9 giugno 1974 – alla fine, nella muffa del buio che succede alla smodata bianchezza, si stende, come il guardiano di una cripta deserta, su un canapè ricoperto di tela e lugubre rantola le sue ultime battute». Un rantolo che, scrive Paolo Emilio Poesio su Etinforma del 1999, «parve avere riverberi beckettiani, quasi a simboleggiare l’avventura dell’uomo in quanto uomo, carne umana che passa”».
Anche Morganti, introducendo il monologo, parla di «maschera di carne», con cui l’attore riesce a restituire l’abbandono, l’addio, la perdita del giardino. E della vita. Čechov non dice che Firs muore. Dice che rimane immobile, come i ciliegi su cui lontano si abbatte la scure del tempo che avanza. A una tale immobilità Ricci consegna una recitazione marcata, manifesta – quasi «da teatro Nō», propone Morganti – una recitazione recitata, che ottiene un effetto di verità proprio perché va nella direzione opposta, quella della finzione. Non è falsità: è rappresentazione. Lǝ spettatorǝ sa che lǝ attorǝ non muore, ma può credere alla morte che vede, se questa esprime la maestria dell’interprete nell’aderire, in modo autentico, alla propria idea di costruzione del personaggio. In poche parole: se lǝ attorǝ è bravǝ. E Ricci lo era, eccome.
La realtà descrive, non racconta. La natura resta in superficie, non apre ad alcuna profondità. Lo spiega bene Scarpellini nel raccontare l’aneddoto dietro al titolo dell’incontro al Lavoratorio. Quando Molière porta in scena Il malato immaginario è malato per davvero: da tempo soffre di tubercolosi. Il 17 febbraio 1673, la sua ultima replica, si sente male in scena. Allora, una severa e fedelissima spettatrice pare abbia esclamato: «Questa sera Molière è morto male!». Il malore gli è fatale: muore quella notte stessa.
Male, dunque, perché espressione del vero, non del finto. La morte a teatro è un gioco, uno sberleffo della vita, perché sul palco è sovrano «l’incorreggibile intento di ricominciare domani da capo», come recita la poesia Impressioni teatrali di Wisława Szymborska, ricordata sempre da Scarpellini. Una prospettiva affascinante che deflagra in tutta la sua vertigine nella monumentale opera video di Trotta, che ha aperto il pomeriggio con la lettura di un racconto di Čechov, Il maestro.
Nasce da una domanda su Facebook – Qual è la morte che più vi ha sorpreso, indignato, commosso in un film, in uno spettacolo? – Il sogno di un destino. Come muoiono gli attori, che ha vinto nel 2022 il Premio Adelio Ferrero nella sezione internazionale videosaggi. Da Blade Runner di Ridley Scott a Romeo e Giulietta di Franco Zeffirelli, da Il cigno nero di Darren Aronofsky a Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci, passando per Troy di Wolfgang Petersen e Il cavaliere oscuro di Christopher Nolan, sono un centinaio i film d’autore, di genere, di intrattenimento, e ancora di più le inquadrature – tra le più famose, come le più segrete della storia del cinema – per indagare visi, sguardi, corpi, che hanno saputo morire “bene”.
La nostra morte è l’esperienza di una volta e per sempre, di una volta e mai più. Non possiamo vederla, ma possiamo rappresentarcela tramite il cinema, il teatro. Possiamo avvicinarla, riconoscerla e, forse, anche temerla un po’ meno. L’attorǝ che finge di morire ci mostra cosa ci aspetta, ma ancora di più ci ricorda che siamo vivɜ. L’ultimo istante viene solo dopo aver vissuto tutti gli altri: facciamoci caso, mentre passano. Perché, poi, è troppo tardi. E finiamo a rantolare come il povero Firs: «La vita è passata, e io… è come se non l’avessi vissuta».
QUESTA VOLTA È MORTO MALE
di e con Claudio Morganti, Attilio Scarpellini, Renzo Trotta
proiezione del videosaggio
Il sogno di un destino. Come muoiono gli attori di Renzo Trotta
grandi ringraziamenti a Alejandro Grimoldi e Susanna Trotta, Marco Rivolta, Miriam Formisano, tutti gli amici che hanno suggerito o ricordato morti memorabili
Il Lavoratorio, Firenze | 20 ottobre 2024