ELENA ZETA GRIMALDI| Giunto alla sua terza edizione, il Catania Off Fringe Festival sta guadagnando velocemente la fiducia del pubblico: basta fare un giro tra le biglietterie per rendersi conto che le persone che decidono di immergersi nel vortice di spettacoli Fringe sono sempre di più, sempre più attenti e sempre più curiosi.

Come il Milano Off, con cui è gemellato e che si è da poco concluso (ne abbiamo scritto qui, qui e qui), il tema del 2024 è Viaggio tridimensionale: Marco Polo è preso a «iconica rappresentazione della missione culturale dell’Italia nel mondo», il suo viaggio diviene il simbolo del viaggiare nel mondo, nelle città che ospitano il festival, ma anche del viaggio dentro noi stessi che il teatro stimola.

Come gli scorsi anni, siamo andati a curiosare tra gli spettacoli del festival.

Il primo visto nella città dell’Etna è stato Ed io l’amavo della siciliana Associazione I musicanti, scritto da Chiara Putaggio e diretto da Francesco Stella. In scena Adriana Parrinello nei panni di Filippa Di Dia, moglie del sindacalista comunista Vito Pipitone che l’8 novembre del 1947 fu freddato da un colpo di fucile allo stomaco. Lo spettacolo è un lungo monologo in siciliano, in cui Filippa racconta al pubblico del marito, del loro amore, e della decisione di Vito di impegnarsi nelle lotte sindacali. Particolare rilievo, in questa prima parte, ha la descrizione della situazione che al tempo intercorreva tra braccianti e possidenti di terra, questi ultimi spesso mafiosi o accordati con mafiosi per proteggere ettari ed ettari di terreni abbandonati dalla possibilità che i più poveri se ne appropriassero. E non con la forza, ma semplicemente coltivandoli, come permesso da una nuova legge a riguardo. Ma la legge non è che un pezzo di carta, e se lo Stato non si prodiga per farla rispettare, non vale niente.
È questo il nucleo tematico più interessante, la discrepanza tra Legge e realtà: non solo Vito viene ucciso per aver incitato i contadini a rivendicare un diritto sancito per legge, non solo viene protetto solo sul letto di morte, ma, una volta passati i funerali di Stato in pompa magna, viene totalmente dimenticato. Nella parte centrale dello spettacolo, la donna pone l’accento sull’ipocrisia di una Legge fatta di formalismi e commemorazioni, che tiene molto all’apparenza e poco alla sostanza; una Legge che, in fondo, abbandona non solo i più deboli e chi prova ad aiutarli, ma soprattutto chi, come Filippa e i suoi figli, è costretto a convivere con la tragica (e giuridicamente irrisolta) morte di una persona amata.
A parere di chi scrive, sarebbe stato molto interessante concentrarsi di più su questo aspetto della vicenda, renderlo il nucleo drammaturgico generativo dello spettacolo, e non solo il passaggio cronologicamente centrale. È forse questo il motivo per cui la struttura drammaturgica nel suo complesso appare debole: i tre momenti di cui si compone sono legati esclusivamente dalla cronologia dei fatti (l’inizio col racconto dell’amore verso il marito, la morte e il funerale al centro e la richiesta di ricordare Vito nel finale), è come se mancasse un fil rouge che tesse nella trama un discorso più complesso della semplice testimonianza.
La Parrinello si destreggia con grande dignità nella recitazione quasi interamente in siciliano del testo, che ha i suoi momenti stilisticamente molto curati, ma che nel complesso resta ancorato al letterario, senza riuscire a diventare azione drammaturgica. Anche nello stare in scena l’attrice riesce a mantenere una certa compostezza, a dispetto della regia che si limita a minimi movimenti o cambi di posizione nello spazio, il che, se da un lato aiuta il pubblico a concentrarsi sul siciliano, dall’altro non sostiene l’atto recitativo e rende lo spettacolo un po’ piatto: una storia toccante, una testimonianza importante, che però non riesce appieno a diventare Teatro.

Foto di Angelo Maggio

Il secondo spettacolo a cui assistiamo ha un taglio completamente diverso: Smart work della compagnia calabrese Mammut teatro, diretto da Gianluca Vetromilo e scritto insieme ad Armando Canzonieri, vincitore di due premi al Milano Off, è una disillusa fotografia del nostro tempo, sicuramente di una parte di chi lo vive. Questo è evidente fin dal titolo, che viene utilizzato nell’accezione letterale, non tanto per rimandare al “lavoro da remoto” che tutti purtroppo siamo stati costretti a conoscere nell’inverno 2020, ma per far emergere il sarcasmo di appellare come intelligente («smart») tutto un settore di occupazioni spacciate come flessibili e autonome ma che, neanche troppo in fondo, non sono altro che precariato, sfruttamento e, non ultimo, alienazione.
In scena un potentissimo Francesco Rizzo che, all’accensione delle luci, appare abbracciato, quasi fuso, con il suo grande amore: una bicicletta vintage. Basta poco a inquadrare un personaggio che conosciamo fin troppo bene: meridionale di stanza a Milano, una laurea in Comunicazione che non ha portato ad alcun inserimento nell’ambito, si divide tra diversi lavoretti part time per pagarsi una minuscola stanza in un appartamento condiviso. L’autopresentazione del protagonista si alterna, come a completarne la figura, agli annunci di lavoro che trova su internet, proposte dal tono squillante e piene di promesse di carriera, tutte diverse ma tutte uguali, e soprattutto tutte obbligatoriamente da prendere in considerazione se non si vuole tornare giù, a casa da mamma e papà.
La parabola dello spettacolo ci mostra, con una studiata commistione di pathos e ironia, l’odissea che (almeno una volta nella vita, sicuramente) la quasi totalità degli under40 ha vissuto: estenuanti colloqui di lavoro, pomeriggi passati al call center a farsi chiudere il telefono in faccia, nottate invernali a pedalare per guadagnare qualche spicciolo da una consegna, e soprattutto il ricatto latente che serpeggia (neanche troppo velatamente) in ogni discorso del “capo”, che sia un uomo in carne e ossa o un’app.
Particolarmente riuscita e significativa è proprio la scena del colloquio di lavoro: sotto una pioggia di luce fredda che ricorda un interrogatorio, il ragazzo è costretto a rispondere a una raffica di domande, sempre le stesse, che sono un modo per sondare e, auspicabilmente, piegare le resistenze del candidato a una totale sottomissione alla sua mansione. Mentre viene bombardato dai vari «Perché vuole lavorare con noi?» o «Cosa pensa di poter portare alla nostra azienda?», il ragazzo, in sella alla bici fermata a terra da un piedistallo, pedala, sempre più forte, con sempre più affanno, mentre le domande incalzano: la vera maratona, la vera sfida, la vera fatica da sopportare è proprio rincorrere quel modello di operatore sorridente e ligio al dovere a qualsiasi costo (per sé e per gli altri), che è l’unico requisito davvero importante per l’assunzione.

Foto di Angelo Maggio

Tra una parte e l’altra, lo spettacolo è intervallato da bruschi abbassamenti di luce, durante i quali da un grammofono posto in proscenio vengono fuori le voci di personaggi famosi (da Briatore a Renzi) che parlano di giovani e lavoro: chi la prende di petto, chi la condisce di moine; il succo resta sempre che il lavoro è più importante di qualsiasi cosa. La domanda pressante, non ignorabile, bruciante che la giustapposizione di azione scenica e referto del reale fa emergere è: davvero lavorare è così importante da giustificare il totale annientamento di una persona e della sua vita?
Come è giusto che sia, lo spettacolo non ci dà direttamente la risposta; ma tutto in questi 50 minuti – dalla drammaturgia asciutta e chirugica, alla regia fresca ed equilibrata, dalla presenza scenica dell’attore sempre in linea coi cambi (anche repentini) di atmosfera, al rapporto con la platea dosato con intelligenza – porta a porsi quell’unica importantissima domanda. Alla fine dello spettacolo, il pubblico quasi non vuole lasciare la sala: vuole sapere. Sapere fino a che punto quello che hanno visto è vero, sapere quanto di questo vero i componenti della compagnia hanno provato sulla propria pelle; forse per riportare la finzione scenica al reale, o forse nella inconscia speranza che la risposta possa essere «Poco», «Lo abbiamo letto nel reportage di Tal de’ Tali». Forse entrambe. Perché, anche dopo gli applausi, insieme ai sorrisi e all’empatia, Smart Work ti lascia dentro una rabbia impotente; e tanto più è evidente l’impotenza, tanto più si acuisce la rabbia; perché non è l’impotenza della rassegnazione, ma l’impotenza che deriva dal prendere atto che il meccanismo che lo spettacolo ha chirurgicamente sezionato e messo in scena non è frutto del caso, dello sbaglio, della mela marcia, ma di un calcolo preciso. Sarà possibile, a queste condizioni, vincere la partita? Forse, l’unico modo è abbandonarla.

 

ED IO L’AMAVO

di Chiara Putaggio
regia Francesco Stella
con Adriana Parrinello
luci Francesco Stella
musiche Gregorio Caimi
costumi Francesco Stella
produzione Associazione I musicanti

 

SMART WORK

di Gianluca Vetromilo, Armando Canzonieri
regia Gianluca Vetromilo
con Francesco Rizzo
luci Gianluca Vetromilo
musiche JVAS
costumi Gianluca Vetromilo
produzione Mammut teatro APS

CATANIA OFF FRINGE FESTIVAL | 19 ottobre 2024