ESTER FORMATO | Nel panorama della drammaturgia anglosassone contemporanea, molto vivo e vario, capita spesso di imbattersi in plays in cui è evidente la presenza di scritture assimilabili ai linguaggi della fiction cine-televisiva, che portano in scena caratteri e dialoghi estremamente naturalistici.
Fra questi fa capolino Old Fools di Tristan Bernays, diretto da Silvio Peroni, interpretato da Marianna de Pinto e Marco Grossi, andato in scena al Filodrammatici di Milano.
Priva di qualsiasi indicazione scenografica, la scena è esclusivamente caratterizzata dai toni tenui delle luci a cura di Claudio De Robertis, motivo per il quale tutto lo spettacolo si svolge in un contesto chiaroscurale e copre un arco temporale lunghissimo, dal momento che si narra della storia d’amore fra Tom e Viv.
Dal punto di vista drammaturgico, l’intreccio si organizza in una serie di quadri narrativi, scanditi proprio dalle luci che si spengono e riaccendono, che non seguono la linea temporale, ma – ed è forse l’aspetto più originale del lavoro – sono montati secondo un’intrinseca coerenza, ovvero: un elemento chiave di una scena ci trasferisce in quella dopo, che coincide con un momento importante – precedente o successivo – nella vita dei due personaggi.
Questo impianto rende forse, per i primi dieci minuti, lento l’avvio dello spettacolo, per poi fluire senza alcuna difficoltà, mostrandosi anzi molto scorrevole, e da un punto di vista emotivo davvero impattante, se consideriamo anche la naturalezza del testo che, come già detto, ricorre ad un taglio cinematografico piuttosto che teatrale e l’idea di mettere passo dopo passo insieme i pezzi della storia.
Qual è la storia; la vicenda di Tom e Viv è quella di due giovani che con la personale valigia di sogni, si incontrano una sera. Musicista lui, linguista lei, si conoscono, si innamorano, si amano fino a incastrare la vita di uno in quella dell’altro. La storia di un matrimonio, quindi, costellato dalla paura di non avere un figlio (che invece nascerà), di dover rinunciare ai propri sogni o alle proprie aspettative; e ancora, la scoperta di un tradimento, la rabbia e il dolore, il perdono, un nuovo inizio…
Ma cosa c’è dietro questo nuovo inizio, Bernays ce lo svela man mano, insinuando subdolo, l’elemento fondante della storia, sbriciolandolo scena dopo scena, finché si ha la certezza esatta che si tratti dell’alzheimer. Ospite inatteso, spettro inesorabile, condannerà Tom ad una lentissima decomposizione di se stesso fino all’inevitabile disconoscimento di tutto, e così, purtroppo, anche della sua Viv che, ormai già nonna, resta confinata nella sua solitudine accanto ad un vecchio divenuto larva.
La regia a questo punto sceglie, secondo la legge del contrappasso, di marcare i confini temporali dei quadri narrativi con esatti movimenti scenici dei personaggi, degli scossoni elettrici, come a cercare una sollecitazione alla ricostruzione di una memoria che vediamo srotolarsi, scomposta, ma che in realtà almeno uno dei due protagonisti non possiede più.
Dicevamo che lo spettacolo è emotivamente impattante. Lo è nella misura in cui il tema della malattia entra nella vicenda in maniera subdola, cosicché lo spettatore ne prende consapevolezza in modo graduale, come testimone diretto di quanto accade al personaggio stesso.
Cornice sonora di tutto ciò è la sola The way you look tonight, storico pezzo che ci catapulta nel mondo metropolitano delle grandi città che la coppia abita nel corso della vita; insomma la semplicità delle scelte regisriche è perfettamente connaturata alla natura intrinseca del testo.
Prodotto da Malalinguae e Festival Trame Contemporanee, il lavoro, che ha avuto anche il sostegno dell’Associazione Alzheimer Italia, affronta in modo nemmeno troppo sofisticato il tema della malattia, restando sulla soglia del problema, integrandolo piuttosto in una narrazione più ampia e complessiva, quale una storia d’amore le cui tappe, comuni a tante altre storie, sono raccontate senza una particolare e articolata prospettiva, se non forse con un po’ di ingenuità e semplicismo.
D’altro canto, è evidente come la stessa semplicità del testo favorisca umana empatia e vicinanza fra personaggi e pubblico, rafforzate anche dall’immedesimazione che ne fanno Marianna de Pinto e Marco Grossi. Restano fuori però delle potenzialità non esplorate, un soffermarsi meglio e più lentamente, più che dipanare velocemente i fili di un’intera vita che non lascia intravedere alcuna complessità dei caratteri e della loro relazione. Forse è ciò che avremmo voluto conoscere per rubare qualche sottotesto prezioso e portarcelo dentro. Nella buona e nella cattiva sorte.
OLD FOOLS
di Tristan Bernays
traduzione Noemi Abe
regia Silvio Peroni
con Marianna de Pinto e Marco Grossi
luci Claudio De Robertis
musiche Oliviero Forni
scene Riccardo Mastrapasqua
assistente alla regia Lara De Pasquale