CHIARA AMATO / Pac Lab* | Dopo oltre dieci anni, lo scrittore, regista e attore Rosario Palazzolo ha deciso di affidare una sua nuova drammaturgia a Salvatore Nocera, attore prescelto per interpretare anche il precedente monologo Letizia forever. Palazzolo ha presentato il suo spettacolo al Teatro della Contraddizione di Milano, dopo il debutto a Savona presso le Officine Solimano. In Tiger Dad il drammaturgo e regista pone di fronte al pubblico la meravigliosa e preziosa contraddizione, per l’appunto, che vede in questo attore (oltre che performer e musicista con I pupi di Surfaro): una fisicità molto virile, robusta e irsuta, che racchiude, come in uno scrigno solido, una sensibilità scenica estremamente delicata.
In un’intervista rilasciata pochi giorni fa a Radio Onda d’Urto, il regista palermitano ha affermato di aver voluto consegnare il testo, con i suoi topoi e la sua umanità a Nocera, del quale ha un’enorme stima, nella certezza di averne altre forme riconsegnate e trasformate.

La vicenda distopica del protagonista, “scemo-lieve”, come lo definisce il medico alla madre, lo vede alle prese con il suo ultimo giorno di vita: siamo di fronte, infatti, al primo condannato a morte in Italia per volontà popolare, e il monologo è tutto sul racconto, non tanto dell’omicidio che egli ha compiuto, quanto piuttosto sulla dualità nella sua personalità, compressa tra il cartone animato superpop dell’Uomo Tigre e il santo Padre Pio di Montalcino.
Ma ancora questa sintesi risulta poco esaustiva, in quanto la scrittura di Palazzolo nasconde e svela su diversi piani narrativi le varie forme di disgusto che lo scrittore prova rispetto alla realtà in cui siamo immersi e che esamina, come in altre sue opere, con la lente di ingrandimento, amplificandone talune sfumature; e proprio da questa osservazione nasce la sua voglia di raccontare storie in una forma più che surreale.

E così cos’altro potremmo dire: che si parla dei social network e dell’intelligenza artificiale? Di un uomo che fa parte della schiera degli ultimi, deriso e strumentalizzato dai più? Della potenza della relazione/reazione conturbante che un regista può instaurare con il proprio pubblico attraverso l’esperienza scenica dell’interpretazione attoriale? Tutto questo e anche di più, in quanto gli elementi e gli spunti che vengono forniti allo spettatore sono moltissimi, forse anche troppi, come sotto un bombardamento.

Fin dall’inizio lo spettatore è chiamato in causa, prima ancora di entrare in sala, in quanto la sigla del cartone animato, cui si ispira il nome del personaggio, parte all’interno del teatro a tutto volume.
In scena (idea di Mela Dell’Erba, insieme ai costumi) è presente un tubo di led luminoso, posizionato a pavimento per ritagliare uno spazio irrisorio, che sarà il limite invalicabile per il nostro protagonista fino alla fine dello spettacolo. All’interno di questo perimetro vi è uno sgabello minuscolo, sopra il quale è seduto un uomo che indossa una tuta, degli stivaletti da pugile e, ovviamente, una maschera da tigre, dalla quale fuoriesce una barba lunga e intrecciata, in pieno stile vichingo: due laccetti lo bloccano ai polsi e alle gambe come un prigioniero, e le mani sono coperte da guanti con le dita tagliate, come quelli usati dal Santo per coprire le stigmate. Fuori da questa cella di isolamento/ring del nostro detenuto/lottatore, sulla destra, un’asta col microfono è posta in ombra.

Qui inizia a raccontarsi Tiger Dad, che mischia sin dall’inizio tratti ossessivi  e conturbanti (la voce bambinesca, i tic nervosi e i movimenti “balbettanti”, come se le sue gambe fossero spezzate) a una dolcezza e un senso di resa rispetto al suo destino.
Ci parla, con uno spiccato accento siciliano, della sua condanna, voluta da famigerati Sherlock Holmes, per un reato di omicidio che, fino alla fine, resta del tutto marginale, mentre si pone al centro la sua passione da bambino per il canto.
Continua così lo spettacolo su due piani d’azione: momenti tristi e momenti felici, che vengono segnalati anche dal cambio sonoro, dai toni cupi fino alle canzoncine dei cartoni animati anni ’80/’90 (musiche originali e effetti sonori di Gianluca Misiti).
Ulteriore accompagnamento narrativo è il disegno luci pensato da Gabriele Gugliara: la scena passa infatti schizofrenicamente dall’essere quasi totalmente buia (tranne che per il cono di luce sui toni dell’arancio che illumina il protagonista), a esplosioni di colori in tutte le direzioni, come in una discoteca, segno pop che torna in diverse creazioni del regista.

La compresenza di piani diversi di riflessione offre allo spettatore più domande che risposte: il cambio repentino dei punti di vista è un elemento tipico nei testi di Palazzolo che lanciano una sfida e generano un sano spiazzamento per il pubblico in sala. Ci sottopone a una iper comunicazione densissima, proprio come quella da parte dei mass media e dei social network, cambiando di frequente e arbitrariamente il fuoco dell’attenzione. Si ha la sensazione di essere in una centrifuga, sbattuti tra infinite questioni su cui riflettere, una su tutte la felicità, che “non è una cosa che si trova, è qualcosa che si perde” e che il nostro protagonista sembra non aver mai toccato con mano.
Come in Letizia forever, anche qui Palazzolo pone al centro di un piccolo e limitato spazio fisico un personaggio potente nel raccontarsi, lasciandogli creare un rapporto intimo con il pubblico: in entrambi i casi infatti, i protagonisti tirano in ballo lo spettatore/interlocutore immaginario, tanto che qualcuno in sala sente qui addirittura la necessità di rispondere, anche verbalmente, durante la rappresentazione. L’uso delle luci dai colori sgargianti e delle canzoni anni ’80 si colloca in quel panorama pop che al regista palermitano sembra essere molto caro: è indubbia quindi la riconoscibilità della sua poetica che si tinge di tonalità sia cromatiche che ambientali molto definibili e ricorsive. Le due storie finora affidate all’interpretazione di Nocera, ci portano in vicende privatissime: sono confidenze di personaggi che vivono al limite dell’invisibile, ma che permettono al regista di allargare lo sguardo su questioni molto più ampie.

Il valore aggiunto, anche in questo spettacolo, è sicuramente quello fornito dall’interprete che, pur restando all’interno di uno spazio scenico claustrofobico, riesce a dare una grande percezione di movimento, quasi nevrotico in alcuni momenti, quasi fanciullesco in altri. La sua narrazione è estremamente fisica, e infatti la sua barba “trasuda” durante la performance: canta (volutamente male), combatte contro le ingiustizie e tira calci a mezz’aria, si dispera e si racconta con dolcezza, fino a essere spietato al microfono nella conclusione, quando finalmente, in punto di morte, gli è concesso di cantare la sua canzoncina.
In origine riesce a instaurare con il pubblico un rapporto di empatia, fino a lasciare sul finale lo spettatore in angoscia, pur sommerso dai fin troppi stimoli e direzioni che la drammaturgia prende. Perché, oltre la consapevolezza della morte, quello che lascia il protagonista totalmente disarmato è che, anche in extremis, beffato come sarà dall’intelligenza artificiale, viene fatto sentire scemo “molto più che lieve” e decisamente disperato.
Alterna, durante il monologo, stili e toni estremamente diversi, non lasciando alla platea un attimo di noia o di quiete, assecondando di certo le volontà del testo. Scava nel sensibile dello spettatore e su aspetti ossessivi e pornografici del contemporaneo per ribaltarli su chi è presente, che poi è ciò che Palazzolo auspica rispetto alla sua forma d’arte e che chiarisce nelle note di regia: sceglie di adottare nelle sue opere un atteggiamento coercitivo nei confronti del proprio pubblico “affinché smetta di assopirsi davanti allo schermo dentro il quale condivide esistenze che non vivrà mai”.

 

TIGER DAD


di Rosario Palazzolo
con Salvatore Nocera
scene e costumi Mela Dell’Erba
light designer Gabriele Gugliara
musiche originali e effetti sonori Gianluca Misiti
aiuto regia Angelo Grasso
regia Rosario Palazzolo
una produzione Ama Factory e Cattivi Maestri Teatro con il contributo del Centro Studi sul Teatro napoletano, meridionale ed europeo e con il patrocinio del Festival del Torto

Teatro della Contraddizione, Milano | 26 ottobre 2024

PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.