LEONARDO CHIAVENTI  / PAC LAB *| Lo sguardo del pubblico teatrale, ma non solo, pare ormai sempre più attratto verso nuovi orizzonti narrativi. A Roma, come nelle altre grandi città, si è assistito al prendere piede di serate di Stand Up Comedy con una platea sempre più grande e all’ arrivo di nuove forme artistiche come il Poetry Slam, vere e proprie gare di poesia. La contaminazione tra tutte queste realtà espressive ha portato anche in scena a un nuovo periodo, privo di limitazioni stilistiche, nel mondo dello spettacolo. Come ha detto Louis C. K. in un intervista a Rolling Stone Italia, la libertà creativa non è un sintomo di arroganza, tutt’altro: non avere quella libertà per l’artista sarebbe come il pilota d’aereo che chiedesse sempre ai passeggeri “Adesso cosa devo fare?”. Sono diversi anche in Italia gli artisti al bordo di più pratiche e forme del linguaggio, che passano in modo fluido dall’una all’altra e che usano codici nuovi dentro forme canonizzate, favorendone un’evoluzione stilistica.
Lorenzo Maragoni, classe 1984, è diventato campione di Poetry Slam nei mondiali che si sono svolti a Parigi nel 2022. Tuttavia la sua formazione e la sua carriera riguardano anche altri ambiti del mondo dello spettacolo, come la Stand Up e il Teatro. Tutto ciò gli ha permesso di costruire una identità artistica dove varie forme di spettacolo riescono a coesistere, restituendo al pubblico un linguaggio poliforme e contemporaneo. E’ andato infatti in scena a Roma, al Teatro San Raffaele, il suo spettacolo Solo quando lavoro sono felice, che lo vede impegnato insieme a Niccolò Fettarappa.
Maragoni si pone effettivamente nella scena artistica come una novità pronta a recepire i cambiamenti e le trasformazioni che i codici espressivi stanno avendo e a rielaborarli con una scrittura fluida, che si è formata assorbendo stili e stimoli da contesti diversi.

Di linguaggio, verità performativa e sensibilità odierna abbiamo parlato con il performer e poeta.

Lorenzo Maragoni e Niccolò Fettarappa. Foto di Francesco Lo Brutto

In molte interviste hai parlato del valore e del ruolo della poesia nella contemporaneità, però nella tua carriera hai scelto di utilizzare varie sfumature del linguaggio: dalla poesia alla prosa teatrale fino al monologo di Stand Up Comedy. Che caratteristiche pensi abbia il tuo linguaggio?

Penso che sia un linguaggio innanzitutto accessibile a tutti e comprensibile al pubblico che a teatro non va molto. È un linguaggio spesso anche ironico: mi piace vedere il pubblico che si diverte. Credo poi che quando si debba far passare un concetto, se lo si fa ridendo il pubblico è più disposto ad accoglierlo. Provo sempre a tenermi aggiornato, mi interessa particolarmente stare in linea con i nuovi linguaggi proposti, anche con quelli dei giovani. Infatti mi sono avvicinato alla Stand Up e al Poetry Slam provenendo da una formazione di teatro tradizionale. Ho cercato quindi di mettere insieme tutte queste forme artistiche con i loro codici e linguaggi diversi per ottenere uno spettacolo che non annoi il pubblico ma che lo possa il più possibile intrattenere e divertire.

Secondo te la fluidità della tua carriera quanto corrisponde alla sensibilità contemporanea del pubblico?

Di solito è consigliato un percorso il cui obiettivo è la riconoscibilità dell’ artista, così il pubblico riesce subito ad associare una determinata forma di spettacolo alla sua carriera. Per fare questo però è necessario concentrarsi su un ambito in particolare. Ci sono persone che si allineano a ciò per natura, per una loro identità forte e precisa. Nel mio caso cercando un percorso alternativo, sono stato guidato dalla curiosità e della libertà e mi sono ritrovato in questa condizione: in momenti diversi della mia carriera mi interessavano aspetti diversi. Quindi non credo che la mia carriera possa corrispondere alla sensibilità contemporanea del pubblico. Il mio percorso può essere visto come lento, ma anche capace di creare un qualcosa di inaspettato, avendo una identità artistica di fondo che poi può essere declinata nella Stand Up, nel Poetry Slam o nella prosa.

Qual è stata la tua formazione riguardo la scrittura?

Partendo un po’ prima, all’ inizio volevo fare l’attore e poi pensavo di fare il regista. La scrittura non è mai stata al primo posto tra i miei pensieri, anche perché avevo un’idea di regista come di un qualcuno che prende i testi scritti da altri e li mette i scena. Con il tempo, con la mia compagnia Amor Vacui di Padova, circa dieci anni fa abbiamo sentito l’esigenza di scrivere noi i testi che volevamo recitare perché gli altri testi non trasmettevano quello che volevamo dire. C’è stato quindi un apprendistato, scrivevamo non sapendo bene quale direzione stessimo prendendo. Però imparare a scrivere con la compagnia è stato fondamentale, da solo sarebbe stato più difficile come passaggio. Avendo compreso quanto la scrittura fosse una necessità, ho cercato varie occasioni per formarmi. Ho partecipato alla Biennale Teatro di Venezia quando era diretta da Alex Rigola prendendo parte a seminari di scrittura di Mark Ravenhill e Pascal Rambert. E’ stata una esperienza breve ma molto intensa. Mi è capitato di seguire dei corsi con Giuliana Musso, una grande autrice. Ho lavorato molto con Andrea Pennacchi, però più che una scuola di scrittura con lui è stato un tirocinio del fare come attore. Nel 2021 è arrivata la scuola di scrittura più strutturata, Scritture, condotta da Lucia Calamaro. Era proprio lei la nostro tutor e la nostra insegnante che ci ha seguito in ogni passo del nostro percorso. È stato un progetto molto interessante che collegava cinque teatri italiani in cui partecipavano 15 autori che proponevano un loro progetto da sviluppare. Lì ho scritto il mio secondo spettacolo Questa cosa che sembra me. Lucia Calamaro mi ha insegnato una “scrittura da palcoscenico” dove non solo si ragiona sull’ aspetto autoriale ma anche sulla produzione, la messa in scena e la regia, dandomi così la solidità nella scrittura che cercavo.

Si può dire quindi che Scritture più che un punto d’inizio per la tua formazione riguardo la scrittura sia stata un punto d’arrivo?

Sì. Avevo già fatto il mio primo monologo prima della scuola, Stand Up Poetry, però era una raccolta di testi di Poetry Slam con filo conduttore comune, non un testo unico con un obiettivo e un tema centrale. La scuola di Lucia Calamaro era perfetta per chi aveva le idee già chiare, riuscendoti a dare gli strumenti necessari per poter portare avanti un tuo progetto.

Quanto studio e preparazione c’è prima della realizzazione di un testo di Poetry Slam?

Dipende. Il singolo testo, quindi una poesia di tre minuti, può anche capitare che lo scriva in poco tempo. Quando questo non succede allora prendo un appunto, poi ritorno dopo un po’ e sistemo in un secondo momento alcune parti. E’ successo una volta che ho fatto un testo di Poetry Slam e non è andato benissimo. Due anni dopo me lo sono trovato sul cellulare, l’ho sistemato e ha avuto successo. E’ diventato uno dei testi che faccio più spesso. Dal punto di vista invece di un monologo completo, quindi di uno spettacolo, di solito mi ci vogliono sei mesi di preparazione, studio e lettura e poi circa otto o dieci mesi per la realizzazione, in totale quasi un anno e mezzo.

La tua produzione drammaturgica quanto assorbe dal Poetry Slam?

In questo momento tantissimo, è una lingua che sento che mi appartiene. È il cuore della mia produzione. Vedo che il pubblico risponde, infatti i momenti principali degli spettacoli che sto scrivendo sono in forma di poesia. Credo però che io non sia in grado di fare uno spettacolo teatrale di sola poesia. I momenti di Stand Up all’ interno del testo drammaturgico servono proprio a questo, a portare il pubblico alla poesia senza escludere l’ironia e l’intrattenimento.

La verità è un attributo sempre più presente nella scena artistica odierna. Più che personaggi da interpretare vengono sempre più apprezzati gli artisti che mostrano sé stessi come con nella Stand Up o il Poetry Slam. Credi che lo spettatore senta ormai necessario un bisogno di relazione con la forma d’arte con cui si confronta?

Penso di sì. Non so però a quale cambiamento culturale questo sia corrisposto, forse per l’avvento dei social e la narrazione continua delle nostre vite, o per la performatività che è sempre più presente in questo periodo. Il personaggio, la storia, il credere risulta essere sempre più complicato per il pubblico del partecipare. Secondo me però esiste una distinzione tra una verità di forma e una verità di contenuto. Abbiamo parlato prima di una verità di forma, in cui il pubblico nello spettacolo non è solo spettatore ma partecipa  anche alla sua realizzazione. Per la verità di contenuto invece si sta assistendo a un cambiamento, si è passati dal raccontare delle nostre vite a prendere degli spunti da esse per poi narrare temi più grandi e farsi delle domande. Per esempio poi nello spettacolo con Niccolò Fettarappa Solo quando lavoro sono felice non parliamo quasi mai di come sia complicato lavorare come attore perché abbiamo pensato che fare uno spettacolo solo su questo non sarebbe stato molto interessante per il pubblico. Abbiamo cercato di raccontare il mondo del lavoro in un modo che tutti si potessero immedesimare e porci delle domande che potevano racchiudere il senso dello spettacolo.

* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.