RENZO FRANCABANDERA | Il racconto che gli altri fanno di noi. Del nostro essere e del nostro non essere. Chissà quante mostruosità raccontate di noi da altri mostri. E quante ne diciamo noi sugli altri, da mostri quali siamo, a nostra volta. Che miserabile l’umanità, quando contempla invidiosa e imbelle. Ma le nostre scelte cambiano ciò che si muove intorno a noi?
La vegetariana, il romanzo del 2007 della scrittrice sudcoreana Han Kang, premio Nobel per la Letteratura 2024, ruota attorno alla vita di Yeong-hye, una donna che, dopo un sogno angosciante, decide di diventare vegetariana, una scelta che sconvolge profondamente le dinamiche della sua famiglia. È diviso in tre parti, ciascuna delle quali adotta una prospettiva diversa sulla vita di Yeong-hye e sulla sua scelta di vita. Diversa in primo luogo perché raccontata da persone diverse.
«Prima che mia moglie diventasse vegetariana, l’avevo sempre considerata del tutto insignificante». Così inizia il libro, lo spettacolo, e il racconto della prospettiva del marito di Yeong-hye, che quasi pirandellianamente osserva il mutare dei comportamenti della donna con crescente incomprensione e frustrazione.
La scelta radicale di lei lo destabilizza, poiché vede il vegetarianismo come un segno di un disturbo mentale che si va facendo spazio in lei; che, a sua volta, fa invece spazio nel frigorifero (svuotandolo di accumuli di carne congelata e pronta alla cottura), ma soprattutto nella vita. Una pulizia che diventa pulsione ascetica e che si rivolge in modo particolare alle relazioni parentali, all’ambito della famiglia di origine, e con particolare forza focalizzando il conflitto sul violento padre, che proverà con la violenza a costringerla a riprendere un’alimentazione che includa la carne.
A incarnare questa figura giudicante, emblema di una modalità di relazione molto maschile, patriarcale e tradizionale, è Gabriele Portoghese. Lo vediamo portare in scena un materasso a due piazze al fondo dello spazio scenico, che più che una casa sembra lo spazio interno di uno squallido esempio di edilizia popolare, un corridoio, uno spazio di passaggio, ma con i muri sporchi, di certo non pulito e brillante.
La struttura emiciclica della scena, creata da Daniele Spanò (che dopo La ferocia ci pare continui le sue indagini scenografiche sulle relazioni fra architetture e senso del vuoto), si condensa poi in due stanze ai lati: quella a sinistra, del cui interno emblematicamente mai nulla sapremo e che è abitata solo dalla protagonista, e quella a destra, che è, invece, un bagno, spazio dell’intimo per eccellenza, ma che sarà comunque a più riprese offerto allo sguardo degli spettatori.
La luce che illumina la squallida casa è quella di una lampada di non particolare brillantezza a fondale. Quelle che illuminano, invece, le due stanze e il proscenio si colorano progressivamente di una specifica cifra emotiva, che varia di sequenza in sequenza. Il disegno di questi equilibri cromatici, che regolano in modo particolarmente efficace le intensità dei vuoti e dei pieni, è di Giulia Pastore.
Ci pare che la descrizione dell’evolvere di questo equilibrio/squilibrio fra vuoti e pieni sia una delle chiavi di lettura, se non la principale che muove l’adattamento per la scena che Daria Deflorian ha realizzato in collaborazione con Francesca Marciano, cercando di mantenere viva anche la scrittura polimorfa della scrittrice nell’unione fra realismo (quello dell’impianto scenografico e anche dei costumi di Metella Raboni) e il simbolismo (degli oggetti di scena e di alcune immagini, di alcuni specifici ambienti).
Questa volta la regista, nota per il suo lavoro su drammaturgie intime e complesse, restituisce l’intensità del romanzo attraverso un linguaggio scenico che cerca di cogliere il senso di estraniamento e metamorfosi della protagonista, abdicando alla forma postdrammatica che aveva caratterizzato i lavori del suo periodo in sodalizio artistico con Antonio Tagliarini.
Qui gli attori interpretano i personaggi e, anche se non di rado si rivolgono in ampi monologhi al pubblico con un fare confidenziale, non c’è mai una confusione con la persona-interprete. Al più, il tentativo di avvicinare la mediocrità, l’ipocrisia, la violenza, la forma erotica di cui ciascuno di loro è portatore. La regista è anche interprete, nella parte della sorella della vegetariana, ruolo affidato a Monica Piseddu.
L’altra parte maschile, che corrisponde all’ulteriore e ulteriore narratore della vicenda di Yeong-hye è Paolo Musio, suo cognato. Dopo la narrazione del marito, che racconta della decisione della donna e del suo allontanarsi da schemi, vincoli e costrizioni di derivazione familiare prossima, nella seconda parte, il cognato di Yeong-hye, artista e videomaker, sviluppa una strana ossessione per la donna e la sua crescente alienazione.
Il cuore dello spettacolo ruota attorno all’attrazione e alla trasgressione, e mostra la forza passiva, ma modellante della donna, che finisce per influenzare anche chi le sta intorno. Emblematica e iconica la notevole scena in cui lui le dipinge il corpo: è resa in modo assai poetico con il ricorso a una lavagna luminosa, che ingrandisce sul corpo di lei l’azione pittorica che Musio realizza sulla superficie dello strumento tecnico, e che viene proiettata a muro sul corpo di lei.
Piseddu arriva a questa interpretazione con tutta la maturità di un percorso artistico attorale che negli ultimi anni ne ha visto una crescita enorme. Questa prova specifica le chiede tanto in termini di esposizione, e non alludiamo banalmente a quella del corpo nudo, ma proprio a una complessità della cifra identitaria del femminile di grandi complessità e tridimensionalità. E la risposta è davvero altissima.
L’attrice interpreta in modo sofisticato lo straniamento, con armi recitative capaci di catalizzare lo sguardo, fino a farla diventare metronomo della rappresentazione. Attribuisce la cifra dell’intimo e le sue pose, ora frontali, ora di spalle, affidando all’asperità vertebrale della spina dorsale, al corpo di bellissima maturità ed eleganza, la capacità di offrire allo spettatore ora la parte ingenua, infantile e trasognata della personalità, ora la sua feroce e testarda determinazione.
Questa specifica questione emerge con ancora maggior forza e chiarezza nell’ultima parte della vicenda, affidata alla narrazione della sorella, interpretata dalla Deflorian, appunto. Costei, di fatto, scopre che suo marito e Yeong-hye hanno condiviso una dimensione intima quando trova le immagini fotografiche e filmiche realizzate da lui nelle sessioni di body painting con la vegetariana.
La frustrazione della donna, che Deflorian descrive in modo icastico e doloroso nella femminilità repressa e via via incattivita dagli eventi, fino a neutralizzarne lo slancio e la potenza, arriva a ordire una vendetta ai danni della sorella, che viene praticamente accompagnata in una clinica per persone con disturbi psichici.
Questo alla fine, come spesso succede, finisce per segnarla in modo definitivo. Eppure la rivolta di lei alle violenze e alle ferite nate in ambiente familiare e di cui non si fa menzione esplicita, ma che si vogliono e possono intuire, la capacità, comunque, di liberarsi, lascia alla sorella, che ne diventa crudele antagonista sotto molti aspetti, un’amarezza inestinguibile. «Non aveva saputo perdonarle di essersi involata da sola al di là di un confine che lei non era mai riuscita a varcare, non aveva saputo perdonare quella meravigliosa irresponsabilità che aveva permesso a Yeong-hye di liberarsi delle costrizioni sociali, lasciandola indietro, ancora prigioniera. E prima che Yeong-hye spezzasse quelle sbarre, lei non sapeva neppure che esistessero».
L’operazione è filologica e compatta, ha un ritmo più serrato e scandito nei primi due episodi, mentre l’ultimo, in scena, come nel libro, si muove in uno spazio più largo e lento, in cui il conflitto non è più relazionale, ma psichico, non più di prossimità, ma di distanze: è la parte senza dubbio più complessa per una resa scenica del romanzo e della sua parte più onirica e angosciante, che sicuramente necessita di trovare il respiro del pubblico per registrarsi in modo definitivo.
La squadra di interpreti è notevole e gli ambienti, le visioni, gli squarci sull’intimo, sono poetiche, adulte, dolorose, di vuoti e assenze come quella dello specchio nel bagno, di cui si vede solo l’ombra impercettibile, come quella che lasciano i quadri che vengono spostati, rispetto al fondo dell’intonaco. Il simbolico non potersi guardare allo specchio esalta tutta la narrazione sul rifiuto della violenza umana, sull’alienazione, la ribellione individuale, e si interroga sul corpo come veicolo di espressione e sulla ricerca di libertà interiore.
Le scelte di liberazione passano anche e soprattutto attraverso quello che non solo spiritualmente, ma anche fisicamente ci attraversa, ci nutre, ci fa vibrare. Il progressivo isolamento della protagonista e le ripercussioni sulle persone che la circondano – il marito, il cognato, la sorella – nel romanzo, come in scena, mettono in luce il contrasto tra la ricerca di una purezza vegetale e il carattere predatorio, cannibale, della società umana, che la protagonista respinge con crescente determinazione.
È uno spettacolo che, in diverse sequenze e su diverse questioni, torna alla mente. È prodotto da INDEX e coprodotto con diversi teatri e festival internazionali, dove sono in programma le repliche delle prossime settimane, che seguono quelle bolognesi e romane al Romaeuropa Festival. Calorosa l’accoglienza del pubblico, che ha affollato le sale in tutte le repliche.
LA VEGETARIANA
scene Daniele Spanò
luci Giulia Pastore
suono Emanuele Pontecorvo
aiuto regia Andrea Pizzalis
costumi Metella Raboni
consulenza artistica nella realizzazione delle scene Lisetta Buccellato
collaborazione al progetto Attilio Scarpellini
direzione tecnica Lorenzo Martinelli con Micol Giovanelli
stagista assistente Blu Silla
per INDEX Valentina Bertolino, Elena de Pascale, Francesco Di Stefano, Silvia Parlani
comunicazione Francesco Di Stefano
produzione INDEX
in coproduzione con Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale; La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello in corealizzazione con Romaeuropa Festival, TPE – Teatro Piemonte Europa, Triennale Milano Teatro, Odéon-Théâtre de l’Europe, Festival d’Automne à Paris, théâtre Garonne | Scène Européenne – Toulouse
con la collaborazione di ATCL / Spazio Rossellini, Istituto Culturale Coreano in Italia
con il supporto di MiC – Ministero della Cultura
l’immagine è di Andrea Pizzalis
copyright © Han Kang 2007
copyright © Adelphi 2016
nell’ambito di Opening – showcase Italia
Visto @ Teatro Arena del Sole, Bologna | 25 ottobre 2024