RENZO FRANCABANDERA | Se c’è una cosa su cui Teatro Akropolis ha da sempre distillato un credo fermo è il postulato che li ha spinti da vent’anni circa a dedicarsi alle arti performative. E questo postulato viene richiamato anche in occasione del lancio della edizione numero 15 di Testimonianze Ricerca Azioni, il festival che la compagnia organizza a Genova in pieno autunno e che quest’anno si svilupperà, con un ricco programma, dal 5 al 17 novembre, ma contando su alcune azioni di prologo che si sono tenute a fine ottobre.
«In questi anni quello che ha ispirato la ricerca di Teatro Akropolis è stato il confronto tra l’origine del teatro (lo ribadiamo, già performativo, anzi totalmente performativo) e la irreversibile crisi della rappresentazione che si definisce da Schopenhauer in poi. (…) Se l’arte è una delle esperienze umane più complesse, la ricerca nell’arte rappresenta il vertice (e il fondamento) di questa esperienza. Ed è impossibile occuparsene se non si vive nel conflitto tra lo spazio e la forma, la parola e la sua dissoluzione, la rappresentazione e i suoi confini. La ricerca, in teatro ma evidentemente non solo, è il vero cammino del viandante, non una sosta, non l’illusione della meta.”
Abbiamo sempre guardato con grande interesse alle pratiche poste in essere in questi anni, peraltro arricchite da numerosi riconoscimenti proprio per l’instancabile azione di ricerca, condensatasi intorno alle edizioni e alla rivista che viene editata, ma anche alla documentazione filmica e di archivio sulle arti performative, che negli ultimi anni è diventato ulteriore terreno di approfondimento. Abbiamo incontrato in avvio di Festival Clemente Tafuri, una delle anime fondatrici di Akropolis, e regista delle più recenti operazioni artistiche promosse dalla compagnia.
Clemente, Testimonianze Ricerca Azioni è un festival che si è ricavato uno spazio molto netto e preciso nel panorama della ricerca dell’arte dal vivo in Italia. Ritieni che il filo che avete iniziato a tessere nella prima edizione sia rimasto lo stesso o gli intrecci hanno poi cambiato la struttura dell’evento?
Il filo è rimasto lo stesso. Il motivo per cui gli spettacoli sono selezionati e il senso che definisce i nuovi progetti riguardano il rapporto tra il teatro e la svolta performativa così come si è definita durante il secolo scorso e ancora si sta definendo. Una crisi che ha interessato tutte le arti, che si può sintetizzare con la crisi della rappresentazione. Ed è una questione fondamentale che interessa il nostro tempo più che mai proprio perché si assiste a un ritorno all’ordine decisamente preoccupante. Sembra che il Novecento sia stato rimosso. Come se tutti i grandi temi dell’arte, della cultura, della politica che lo hanno animato fossero stati risolti. Una follia. In ogni caso, da questo tema se ne sviluppano altri. Gli intrecci, come dici tu, cambiano la struttura dell’evento che però non perde la sua ispirazione.
Che edizione sarà questa e quali idee hanno favorito la scelta della direzione artistica?
Heliopolis, l’archivio sulle arti performative che presentiamo in questa edizione del festival, è un progetto che in qualche modo risponde alla tua domanda. Si struttura intorno a una mappa concettuale i cui temi sono alla base del festival e, potremmo dire, alla base di quasi tutte le nostre attività. La transdisciplinarietà, la trasmissione dei saperi, il corpo del performer, la relazione possibile tra il teatro e le arti performative, l’arte contemporanea, il tragico e la nascita del teatro, la relazione tra uomo identità e personaggio.
Che legame ha Akropolis e la sua azione politica e poetica con il festival? Peraltro presenterete il vostro ultimo lavoro…
Il lavoro di un artista mi interessa se affonda le radici nel cuore dei problemi dell’arte. Che vuol dire di conseguenza affondare le radici nella cultura, nella società, nella vita di ognuno. Scegliere quindi di presentare un artista, dare spazio alla sua ricerca, significa prendere una posizione che è anche politica. Da una certa prospettiva soprattutto. Utilizzare slogan, frasi a effetto intorno a questioni di natura sociale e culturale e poi programmare spettacoli che hanno in sé una matrice ideologica opposta mi sembra una tendenza generale su cui bisogna riflettere. Puoi dire di fare uno spettacolo a sostegno di qualunque causa, ma se lo spettacolo nelle sue strutture è reazionario, contraddittorio, e si limita a una chiacchiera intorno al problema, la questione si fa pericolosa. Si insinua l’idea che la forma non rappresenti più un problema, che non abbia peso da un punto di vista politico. Che sia possibile, cioè, fare più o meno qualsiasi cosa in scena e poi riscattarla con una drammaturgia a tema.
Il film su Carmelo Bene che presentiamo in questa edizione del festival espone, anche se non esplicitamente, questa prospettiva. La potenza dell’ispirazione di Carmelo Bene è un terremoto per chiunque fa questo mestiere. D’altra parte tutto il progetto La parte maledetta. Viaggio ai confini del teatro ha come obiettivo quello di mettere in luce questioni fondative dell’arte attraverso il lavoro di artisti e filosofi. E sono questioni di grande impegno culturale e politico.
L’altro lavoro riguarda la relazione tra musica e immagine, memoria e sviluppo della partitura musicale. At First Light, da un’idea di Pietro Borgonovo, che dirigerà la partitura musicale di Benjamin, rappresenta un nuovo modo di fruizione del suono, uno sfondamento dell’immagine attraverso la trasparenza del corpo del performer. È una grande sfida. Il lavoro con Pietro ha rappresentato una svolta nel cammino di ricerca di Teatro Akropolis.
Il pubblico, la città. Come si porta al coinvolgimento una realtà in così grande mutamento sociale e organizzativo?
Il pubblico segue Teatro Akropolis con passione, forse perché le tante attività che proponiamo rappresentano la possibilità di un incontro ampio, su più livelli. Dalla formazione all’editoria, dagli spettacoli ai convegni e ai seminari, passando per gli incontri con gli artisti, le residenze artistiche, una sala rinnovata e progettata per ospitare diverse forme di spettacolo.
La città è in trasformazione, è vero, e i rischi sono tanti. Non ultimo il problema di uno stravolgimento sociale proprio nella parte di città in cui si trova Teatro Akropolis. È il frutto di decisioni che negli anni hanno definito una nuova politica industriale, ridisegnando in parte il ponente di Genova. E in questo il ruolo della cultura è decisivo.
Ovviamente per cultura intendo un lavoro sinergico tra scuole, associazioni, biblioteche, università. Non si può pensare che i teatri debbano risolvere tutti i problemi, o comunque debbano occuparsi indiscriminatamente di tutto. Il Comune, in questo senso, è stato disponibile a un dialogo fattivo, concreto, intorno a questioni strategiche. Pianificare in tempi lunghi le attività è una svolta essenziale. La precarietà e la circostanzialità dei finanziamenti alla cultura è un problema serio che va affrontato e risolto.
Teatro Akropolis ha sempre avuto fin dall’inizio della sua pratica una declinazione della poetica all’interno di una pratica di studio e ricerca sul linguaggio, che sta continuando e si arricchisce di nuovi capitoli.
I diversi linguaggi dell’arte sono essenziali per avvicinarsi sempre più al nucleo di questo lavoro. Il cinema, la musica, la scrittura, la pittura sono parte del teatro inevitabilmente, costitutivamente, perché ogni linguaggio dell’arte è uno strumento per mettere più a fuoco questioni originarie e irrisolte dell’arte stessa. Ma hanno logiche e regole differenti.
Ogni forma d’arte ha le sue intrinseche specificità e questioni da affrontare. Nel nostro caso, non si tratta di mescolare linguaggi. Un film è un film. Un dipinto è un dipinto. Se lavoro a un film devo togliermi dalla testa di trattare un attore come farei in scena, di lavorare sui tempi e lo spazio di un’inquadratura come farei se stessi lavorando a una scenografia.
Sembra ovvio, ma non lo è così tanto. Il teatro è tremendamente debordante. I teatranti sono debordanti. Se mettono mano su qualcosa la teatralizzano senza neanche accorgersene. Così come gli scrittori che mettono in scena un’opera. La letteratura finisce col divorare ogni elemento della scena, attori compresi. In questo senso, corriamo tutti dei rischi.
A volte, per chi fa arte, la sensazione di impotenza rispetto ai grandi eventi del mondo è drammatica. Che ruolo ha oggi questo pezzo di società e questa attività, per taluni apparentemente elitaria, dentro uno scacchiere mondiale che ci fa sentire in modo così grave l’incuranza per la vita umana?
L’incuranza per la vita umana c’è sempre stata. Ora la avvertiamo di più perché la catastrofe della guerra riguarda l’Occidente, o comunque una parte del mondo in cui riconosciamo, diciamo così, una nostra identità. Ed è proprio l’interpretazione del tema dell’identità a creare conflitti, incomprensioni, a innescare brutali forme di emarginazione e di segregazione. Come al solito guardiamo quello che accade senza chiederci perché accade, senza andare a cercare i motivi un po’ più in là dei tempi immediatamente recenti.
Cosa possono fare gli artisti? Poco. Perché quella dell’arte, pur essendo la voce più potente di ogni epoca, è anche la più fragile. E come per ogni altra voce la sua forza dipende da chi la ascolta. Potrei dirti che è fondamentale lavorare sul territorio, radicare la propria azione politica, sensibilizzare il pubblico, coinvolgerlo con mille stratagemmi. Ma è talmente ovvio che è inutile ripeterlo. Lo facciamo. Lo fanno in tanti, per fortuna.
La questione è: quanto incide l’arte nella vita delle persone? Non parlo del tempo libero. Parlo del tempo in assoluto. Che strumenti ha il pubblico per avvicinarsi all’arte in modo quantomeno consapevole, e non come un turista? Valutare l’arte in base ai numeri, al botteghino, agli algoritmi, al giudizio di chi si occupa di queste cose per passatempo è un’altra follia. E a parte gli artisti, la cui voce resta sempre più spesso inascoltata, anche il pubblico risente di questa situazione.