GIANNA VALENTI | Nel testo che segue, Alain Platel, coreografo e regista di fama internazionale che con il proprio lavoro ha cambiato profondamente la storia della danza teatrale occidentale, si racconta e racconta della propria carriera: dalle prime sperimentazioni con un gruppo di amici alla fondazione di les ballets C de la B nel 1984, dall’affermazione di un nuovo modello relazionale e coreografico all’internazionalizzazione del suo lavoro oltre i confini del Belgio, sino alla sua più recente ricerca in epoca post-Covid. Un racconto che è artistico e umano e che non può che riflettere l’identità principale del suo progetto coreografico: la centralità di ogni performer/persona come chiave drammaturgica, come ricerca di senso e come guida nella composizione dei materiali.
Platel ha risposto con questo testo a un mio invito a lasciare una testimonianza sull’essenza del proprio percorso creativo, su quella frequenza creativa unica che ha incarnato nell’universo danza e che ha avuto — e continua ad avere — un impatto sul mondo attraverso le sue opere. Tra le proposte da me fatte, il coreografo e regista ha scelto di scrivere una “lettera al futuro”, una forma di comunicazione che permette uno spazio di riflessione sia per chi scrive che per chi legge: una sorta di capsula del tempo per il futuro della coreografia e dell’umanità.
Sono felice di averla ricevuta. L’ha scritta per tutti noi e ve la consegno.
Ufficialmente sono già in pensione, ma è stato solo la scorsa estate, dopo la presentazione di una delle nostre ultime creazioni, Mein Gent, che è diventato ufficiale: svegliarsi il 3 agosto 2024 con la consapevolezza, per la prima volta in quarant’anni, che non c’erano responsabilità urgenti da affrontare e che nessuno si aspettava qualcosa da me… ve lo consiglio! Così, durante questi ultimi mesi estivi, con la mia compagna Isnelle e il nostro cane Kito ho festeggiato quasi tutte le sere con una birra sulla nostra terrazza! Sono sempre stato conosciuto, e spesso messo in discussione, per le mie rare apparizioni sulla scena alla fine di uno spettacolo, e non è stata una sorpresa che non volessi una festa d’addio. Anzi, ho minacciato di andarmene se qualcuno l’avesse organizzata: sapevano che facevo sul serio e nessuno ha cercato di farlo!
Se mi guardo indietro e allargo lo sguardo, rimango stupito da tutto quello che mi è successo in questi ultimi quarant’anni. Perché… in realtà sono piuttosto timido e insicuro come persona, quindi diventare in un certo modo e dover essere in certi momenti così esposto, è stato spesso molto contraddittorio con quello che sento di essere. Soprattutto, la mia prima ambizione negli anni Ottanta era quella di diventare un buon Ortopedagogo (un insegnante per bisogni educativi speciali), perché era quello che avevo studiato, Psicologia e Pedagogia, e quando a metà degli anni Ottanta cominciammo a fare piccole performance tra amici, era soprattutto per avere un motivo per stare insieme, bere vino scadente, fumare sigarette e parlare di come avremmo cambiato il mondo.
Molto ispirato dalla coreografa tedesca Pina Bausch (che ha utilizzato le storie personali dei suoi danzatori come fonti per le sue performance) e dal pedagogo francese Fernand Deligny (che ha deciso di vivere con i bambini affetti da gravi disturbi mentali invece di lavorare con loro negli ospedali psichiatrici), ho iniziato a realizzare performance che erano copie scadenti di scene ispirate a Café Müller della Bausch, ma poiché a quei tempi non esistevano i social media, riuscivamo a farla franca. Alcuni giovani registi teatrali fiamminghi seguivano e presentavano il nostro lavoro, ma non c’erano soldi e tutti noi dovevamo trovarci un lavoro vero altrove per poter sopravvivere.
Sono stati anni in cui abbiamo avuto la possibilità di crescere e di sviluppare gradualmente un linguaggio fisico originale che veniva descritto come caotico e non professionale ma che, con mia grande sorpresa, il pubblico apprezzava, e che incuriosiva i danzatori professionisti che hanno così iniziato a voler lavorare con noi.
Da bambino e adolescente ho seguito alcuni laboratori di mimo, teatro e danza, ma nessuno con l’ambizione di diventare un professionista. Quindi, quando ho iniziato a “dirigere” i miei compagni di lavoro nelle nostre prime performance, non ero certo in grado di mostrare loro cosa fare e come farlo. Dipendevo dalle nostre capacità limitate e dalle nostre proposte originali e, poiché non avevamo un’educazione artistica, non poteva fregarcene di meno delle convenzioni, delle regole o delle tendenze. Inoltre, in Belgio, non c’erano padri da uccidere nelle arti performative; esisteva solo una compagnia di balletto vecchio stile e il famoso coreografo Maurice Béjart aveva appena lasciato il Paese per la Svizzera: nessuna storia, niente soldi e solo pochi spazi alternativi dove presentare le nostre sperimentazioni.
Il nostro lavoro, in quegli anni, era provocatorio, molto fisico, non aveva uno stile specifico e riconoscibile e prendeva ispirazione dalla rabbia dei giovani interpreti (ricordatevi… eravamo nell’era punk): un tipo di lavoro molto attraente per alcuni danzatori professionisti che volevano sfuggire al noioso mondo del classico.
C’è stato, poi, un momento in cui ho dovuto scegliere tra un percorso artistico e i miei impegni come pedagogo, perché mettere insieme entrambi non era più possibile. Ho deciso, così, di assumermi il rischio artistico e abbiamo creato la compagnia Les Ballets Contemporains de la Belgique — les ballets C de la B — un nome ironico per una compagnia che era il contrario di ciò che il suo nome indicava: un collettivo di non professionisti, assolutamente diversi tra di loro, che avevano l’ambizione di creare performance fisiche ispirate alla personalità degli interpreti.
Sin dall’inizio della mia “carriera” sapevo che se volevo fare dichiarazioni sul mondo attraverso le nostre performance — perché questo era il nostro livello di arroganza e pretenziosità — il mondo doveva diventare ben visibile sulla scena. È per questo che, come prima regola, i nostri cast dovevano essere molto diversificati: (non) professionisti, background (culturali) diversi, diverse età, sesso, genere, colore e abilità…. Devo dire che mi ha fatto molto piacere che questa diversità sia stata menzionata solo raramente dai critici, anche se a quei tempi i cast di danza europei erano molto bianchi. Forse, significava che questa diversità non era un problema e rappresentava una realtà quando, al giorno d’oggi, è uno dei criteri principali per giudicare una compagnia o una performance.
Mentre cercavo un modo di interagire con questi cast così diversi, ho sviluppato un “metodo” che ha funzionato piuttosto bene: chiedevo ai performer di creare frasi personali di danza su temi specifici. E, in effetti, qualsiasi tema sembrava funzionare. Se chiedi a un performer di creare una frase “verde”, lui o lei sicuramente si inventeranno qualcosa che sarà sempre ispirato e influenzato dal suo background personale. I danzatori classici creeranno qualcosa di simile a un balletto, un club dancer creerà qualcosa di simile a una club dance. Ma se, poi, chiedi ai danzatori classici di reinterpretare la frase del club dancer, lui o lei si inventerà qualcosa che non è né balletto, né club dancing. La stessa domanda potrebbe essere fatta anche ai bambini, ai ragazzi e ai non professionisti, e va detto che i danzatori professionisti adorano lavorare con loro! In quel modo abbiamo iniziato a sviluppare uno “stile” che ho descritto come bastard dance (danse bâtarde). Abbiamo scoperto che le possibilità erano infinite, infatti potevamo creare tanti generi quante erano le persone presenti.
Non avevo mai una chiara idea con cui cominciare. A volte c’era la musica di un compositore, una scenografia straordinaria, una serie di temi vaghi o qualcos’altro che ci ispirava, ma c’era sempre un cast specifico. I performer erano il centro dell’intero lavoro. Facevo molte domande (personali) — come nel metodo di lavoro di Pina Bausch — e li invitavo a improvvisare attorno a temi che proponevo o che loro stessi proponevano. Poi, in costante dialogo con il cast, si decideva cosa tenere, su che cosa continuare a lavorare il giorno successivo e che cosa lasciare. Gradualmente una performance “appariva” e raramente era qualcosa che avevamo immaginato all’inizio del processo. Un processo che impauriva, ma estremamente avventuroso e con un obiettivo principale: ogni performer doveva essere molto visibile.
Mi ci è voluto un po’ prima di osare introdurre il mio background personale nei processi di creazione. Di tanto in tanto menzionavo le mie esperienze di pedagogo che lavorava con bambini con difficoltà mentali o fisiche, ma solo in seguito ho mostrato film e immagini su di loro (documentari medici di pazienti psichiatrici dell’inizio del XX secolo e i film di Fernand Deligny Ce gamin là e Le Moindre Geste che ci furono di grande stimolo).
Penso che per molto tempo ho avuto paura che i performer si prendessero gioco di questo tipo di umanità. Ma, di fatto, è successo il contrario, e hanno riconosciuto un mondo interiore che loro stessi come danzatori stavano cercando: quando le parole non funzionano più, il corpo comincia a parlare… e spesso quel linguaggio è duro, meno controllato e non “bello”, ma con un effetto emotivo che coinvolge sia i performer che il pubblico.
Dato che raramente creavo materiali danzati ed ero impegnato come regista anche con spettacoli teatrali e musicali, nonché con opere liriche e documentari cinematografici, avevo difficoltà a sentirmi definire un coreografo, ma quando ho capito che la parola choreo si riferisce anche a un disturbo neurologico che influenza i movimenti fisici del corpo… ho finito per conviverci.
I performer venivano ingaggiati per una creazione e rimanevano fino alla fine del tour (più o meno da un anno e mezzo ai due anni) e solo alla fine del processo decidevo — dialogando con ognuno di loro — se avesse senso continuare la nostra collaborazione o se avremmo dovuto (temporaneamente) interromperla: con alcuni performer ho lavorato per più di vent’anni, altri sono semplicemente passati per una creazione.
Non sono un viaggiatore. Riesco a vedere il mondo intero dal piccolo angolo in cui vivo e durante le passeggiate quotidiane con il mio cane. Nel minuscolo libro Je keek te ver (Hai guardato troppo lontano), Marjoleine De Vos descrive come ogni giorno rifà lo stesso percorso all’interno del suo villaggio nel nord dei Paesi Bassi e come questo le abbia permesso di scoprire l’intero globo senza bisogno di intraprendere lunghi viaggi attraverso il pianeta. Se non fossi stato membro di les ballets C de la B, probabilmente non avrei viaggiato oltre la costa belga o oltre le Ardenne… ma ora posso dire di aver visto mezzo mondo e mi sento estremamente privilegiato!
Durante i miei percorsi, comunicando con i diversi cast e incontrando persone provenienti da tutti i diversi continenti, ho potuto riconoscere in loro la mia stessa timidezza e insicurezza (che tra l’altro riuscivo a nascondere sempre meglio) e in questo senso non mi sono mai più sentito unico o solo, ma anzi rafforzato da questa esperienza.
In alcuni luoghi e in molte occasioni sono stato anche testimone di un’ingiustizia estrema con la quale non avevo mai dovuto confrontarmi nella mia vita personale. È stato così in Brasile, Lituania (all’inizio degli anni Novanta), Timisoara, Mosca e Hong Kong, ma anche nell’incontro con gli aborigeni australiani o durante il mio lavoro a Bobo Dioulasso e Kinshasa e, soprattutto, visitando i Territori Occupati dal 2001.
Le visite ai Territori Occupati sono quelle che mi hanno maggiormente coinvolto e sopraffatto. Fin dal primo seminario a Ramallah, nel 2001, sono rimasto colpito dall’oppressione palese e visibile e dall’ingiustizia generale presente in quell’area e mi sono reso conto che la politica dei diversi governi israeliani era quasi completamente sostenuta da una visione di nazione/etnia. Per questo ho aderito al BDS (Boycott, Divestment, Sanctions), un movimento internazionale non violento, composto principalmente da accademici e artisti, che chiede il boicottaggio (economico) di Israele finché rimarrà uno stato apartheid. Prendere parte a questo movimento è diventato, però, gradualmente pericoloso e minaccioso: negli ultimi vent’anni sono stato insultato e umiliato in numerose occasioni, ho ricevuto persino minacce di morte (!) e sono stato censurato e cancellato in alcuni ambienti.
Se c’è qualcosa che mi ha lasciato frustrato alla fine della mia carriera professionale, è che non sono riuscito a convincere i miei colleghi a unirsi al movimento BDS o, almeno, a rendersi più disponibili a parlare apertamente di questa tragedia. Sapevo, e so, come questo cosiddetto conflitto locale può, potrà e già domina lo sviluppo dell’intera politica mondiale. Ci stiamo evolvendo verso governi tirannici di estrema destra su tutto il pianeta o verso società meno nazionalistiche, di mentalità aperta, nella consapevolezza che condividiamo tutti lo stesso piccolo globo?
Credo di aver vissuto una delle epoche più emozionanti della storia della danza contemporanea occidentale. Il periodo 1980-2020 è stato un periodo in cui tutti i generi della danza contemporanea hanno preso il volo e il Belgio è stato sicuramente uno degli epicentri. Con Anne Teresa De Keersmaeker, Jan Fabre, Wim Vandekeybus, Meg Stuart e, più tardi, anche Sidi Larbi Cherkaoui come figure importanti, il Belgio ha attratto molti giovani danzatori da tutto il mondo. Da un decennio, però, stiamo vivendo un momento di grande cambiamento nelle società a molti livelli. Vengono poste domande urgenti su questioni sociali, ecologia, economia, genere, diversità, leadership… e le performing arts si uniscono alle riflessioni su questi temi che stanno dando forma a importanti cambiamenti di mentalità sul modo in cui le performance sono concepite, create e presentate.
Soprattutto dopo il Covid, mi sono confrontato personalmente con molti dei dubbi dei miei performer sul significato e sul senso della danza come forma d’arte, quando sembrava che nella danza contemporanea occidentale tutto fosse stato inventato e sperimentato. Inoltre, alla fine, il corpo umano ha i suoi limiti: non è possibile correre i 100 metri in zero secondi… Ecco perché motivare i danzatori e portarli a esplorare la loro passione originaria per il mestiere a volte non è stato facile, ma chiedendo loro come hanno iniziato a danzare e utilizzando i loro ricordi generati da quella domanda, sono rimasto molto sorpreso dalla gioia che sono riusciti a riscoprire; un processo, questo, che è stato l’ispirazione per il linguaggio fisico che abbiamo sviluppato nelle nostre ultime creazioni: Another Sacre (2021), C(H)OEURS (2022) e Ombra (2024).
Quando ho raggiunto l’età della pensione, la continuazione di les ballets C de la B – una compagnia che è stata associata al mio nome come regista – è stata messa in discussione. Non ho mai avuto l’aspirazione di continuare a farla vivere, di mantenermi in quel ruolo e di lavorare su un repertorio e non mi interessava nemmeno trovare un successore. Abbiamo quindi deciso di cambiare il nome, il team artistico e gli obiettivi della compagnia e les ballets C de la B è diventata laGeste. Sono andato in pensione, è stata scelta una nuova direzione artistica e la nuova compagnia si concentra principalmente su progetti performativi inclusivi.
Ricordo un tag apparso a un certo punto su molti bagni di tutto il mondo che diceva che Killroy è stato qui. Nessuno ha mai saputo chi fosse Killroy, ma a quanto pare lui/lei era stato lì e in tutti quegli altri posti. È così che mi sento: sono stato/sono qui per un po’, non ho mai avuto la reale ambizione di vivere ciò che vivo e o vissuto, posso solo guardare indietro sorprendendomi di tutto quello che mi è successo. Anche se amo vivere, credo che sia un fardello pesante sapere che c’è una sola via d’uscita: la morte.
Quindi… nessun altro messaggio al mondo se non una citazione di Fernand Deligny sulla vita:
être-là
être cet être là
qui est avec un autre
et un autre
alors il te faut être là
tout simplement
et faire ce que tu as à faire
verbe vivant que tu es
to be there
to be this being
who is there with another being
and another
so you just have to be there
very simply
and do what you have to do
which is a proof that you’re there
Alain Platel
https://youtu.be/i9xXGqPkIYk?si=2l2J9Bvowh-vBAd3
English Text
Alain Platel, no other message to the world
Credits
Autore Alain Platel
Editing & Traduzione Gianna Valenti
Publishing PAC-Paneacquaculture.net
Il collegamento multimediale a questo testo, “Fare Corrografia #4: Alain Platel, no other message to the world” può essere condiviso senza restrizioni. Tuttavia, ai sensi della Convenzione di Berna sui diritti di proprietà intellettuale (diritto d’autore), il presente testo può essere citato, secondo un uso corretto e nella misura necessaria per raggiungere lo scopo desiderato, ma non può essere copiato o riutilizzato senza la previa autorizzazione dell’autore sia nelle pubblicazioni digitali che stampate.