EUGENIO MIRONE | Da giovedì 28 novembre a domenica 1 dicembre torna La settimana delle Residenze Digitali (qui il calendario), l’occasione per assistere alla prima restituzione, online e/o in presenza, dei progetti artistici vincitori del Bando delle Residenze Digitali, call che ogni anno, dal 2020, supporta artiste e artisti nell’esplorazione dello spazio digitale e che, da quest’anno, presenta due novità principali.
Innanzitutto, l’espansione della rete di collaboratori che supportano l’evento che arriva a estendersi anche in Sardegna e in Friuli-Venezia Giulia con l’aggiunta di due nuove realtà: il Centro di produzione di danza e arti performative Fuorimargine di Cagliari, e l’Associazione Quarantasettezeroquattro (In\Visible Cities – Festival urbano multimediale) di Gorizia.
Un ulteriore ampliamento ha interessato il comparto dei tutor, da quest’anno composto da quattro membri. Si tratta di figure esperte nell’ambito della creazione digitale, che hanno modo di monitorare e fornire il loro supporto ai quattro progetti vincitori lungo il corso delle residenze. Per le prime quattro edizioni in questo ruolo si sono distinte Laura Gemini, Anna Maria Monteverdi e Federica Patti, per questa quinta edizione si è aggiunto anche Marcello Cualbu, professionista con alle spalle un lungo passato nel mondo delle arti digitali.
I progetti di cui verrà data una restituzione nell’arco della 5ª edizione delle residenze digitali sono: Non Player Human del danzatore Simone Arganini e del designer digitale Rocco Punghellini, una performance interattiva su Twitch che, attraverso la figura del “Non-Playable-Character”, porta in scena le tensioni esistenziali dell’essere umano, interrogandosi sulle dinamiche relazionali e di potere che si creano in presenza di un soggetto controllato in un contesto di live-stream; Radio Pentothal, dell’attore e regista Ruggero Franceschini, è una radio ispirata dal personaggio di Andrea Pazienza e dalla storica Radio Alice, i cui contenuti sono generati da un programma di intelligenza artificiale addestrata con materiali della controcultura degli anni ‘70; Spazio latente di Filippo Rosati, fondatore di Umanesimo Artificiale, è un’esperienza digitale immersiva che porta il pubblico in un teatro anatomico virtuale dove l’innesto di un impianto cerebrale consentirà la modifica da parte del pubblico delle memorie del paziente, un lavoro che s’interroga sul rapporto tra tecnologia, arte e coscienza umana; Metabolo II: Orynthia di Valerie Tameu è un rituale cyber-magico, in cui il movimento del corpo umano, quello di un biota acquatico e un software di intelligenza artificiale collaborano per dare vita a un’entità numerica, una figura ispirata alla leggenda della Mami Wata, divinità acquatica proteiforme dell’Africa occidentale ed equatoriale.
«La quinta edizione della settimana delle Residenze Digitali porta all’attenzione di pubblico e operatori quattro artisti fortemente motivati a lavorare nello spazio digitale online, con progetti realizzati dal vivo che domandano allo spettatore una partecipazione relazionale e interattiva: sempre più il nostro lavoro si avvicina agli obiettivi che avevamo pensato quando lo abbiamo avviato nel 2020, ovvero aprire nel panorama teatrale e coreografico italiano uno spazio che prima non c’era» dichiarano Lucia Franchi e Luca Ricci, direttori dell’Associazione CapoTrave/Kilowatt e coordinatori insieme ad Armunia del network Residenze Digitali.
L’evento, oltre a rappresentare un momento celebrativo, è soprattutto una tappa di crescita per i lavori artistici, in quanto occasione di contatto con il pubblico. Per l’occasione abbiamo avuto il piacere di dialogare con Marcello Cualbu, alla sua prima esperienza come tutor all’interno del progetto.
Marcello, cosa ti ha spinto a prendere parte al progetto Residenze Digitali in qualità di tutor?
Da anni faccio il tutor all’interno del progetto Fase XL ideato e promosso da C.U.R.A. – Centro Umbro Residenze Artistiche di cui è membro anche La Mama Umbria International. Visto che La Mama Umbria è una delle realtà del progetto delle Residenze Digitali, mi è stato proposto questo incarico che ho trovato fin da subito interessante.
Mi definisco un topo da laboratorio; gran parte della mia attività formativa e di tutoraggio, infatti, si svolge negli spazi di produzione. Ho sempre le mani in pasta, insomma. Per questo, mi è sembrato un po’ strano, all’inizio, pensare di dover svolgere il tutoraggio da remoto; ma devo dire che mi sono trovato abbastanza bene. Per certi versi questa modalità mi ha permesso di essere meno impulsivo in certe scelte. Per uno molto tecnico come me non è così immediato, infatti, fare tutoraggio a degli artisti con i quali il riscontro empirico non è istantaneo.
Che progetti hai seguito?
Ho avuto modo di seguire Metabolo II: Orynthia di Valerie Tameu e Radio Pentothal di Ruggero Franceschini. Con Valerie in parte ho già collaborato e conosco bene la sua poetica e le sue capacità; il progetto di Ruggero, invece, mi ha interessato molto per la tematica, sia dal punto di vista sociale e politico, sia dal punto di vista della ricerca sull’intelligenza artificiale.
Gran parte del lavoro per il suo progetto è stato adoperato nella generazione di un modello linguistico basato sull’AI e addestrato tramite un archivio che lui è riuscito a comporre. L’idea alla base del lavoro, infatti, è quella di provare a creare una forma di radio, non dico autonoma, ma quasi. E devo dire che il modello interagisce piuttosto bene.
Nel progetto di Valerie, invece, il discorso è un po’ più complesso dal punto di vista dell’addestramento delle macchine. Trattandosi di danza, è stato necessario lavorare per dare la possibilità all’intelligenza artificiale di acquisire moltissime posizioni performative, creando un sistema in grado di prevedere ciò che una persona si sta apprestando a fare.
Sembra un lavoro lungo e complesso, ma arriva un momento in cui l’addestramento finisce e la macchina è pronta?
Assolutamente sì, a un certo punto questo processo si ferma. Ci è voluto tempo, anche perché la parte più complessa è raccogliere il materiale e uniformarlo. Alla base c’è sempre un lavoro di ricerca. La parte tecnologica, in realtà, non è complessa, quella più difficile è quella “umanistica”, vale a dire andare fisicamente e digitalmente negli archivi per consultare fonti e documenti.
Quando parliamo di intelligenza artificiale, sembra che parliamo di chissà che cosa, in realtà il grosso è sempre una ricerca molto umanistica. I cambiamenti in quest’epoca storica avvengono molto velocemente. Quando lavoravo a questi progetti anche solo cinque anni fa mi accorgevo che la forza principale era data da un grande apporto tecnologico: codici informatici, hardware o comunque software molto complessi. Adesso c’è stata una distensione da questo punto di vista, perché l’intelligenza artificiale aiuta moltissimo nell’utilizzo di questi strumenti e anche perché l’oggetto della ricerca sta mutando.
La forza tecnica perde un po’ di potenza, diventano molto più interessanti, invece, le capacità di ricerca umanistica come la concettualizzazione di un soggetto e la successiva creazione della richiesta alla macchina per farlo analizzare. Ad oggi passo molto più tempo sui libri di storia dell’arte o di sociologia che non a guardare tutorial di programmazione informatica.
Quali possono essere allora gli orizzonti delle arti performative (e del teatro in particolare) con il consolidamento nelle nostre vite dell’intelligenza artificiale?
Devo dire che ultimamente trovo molto più dinamico questo scambio, mentre prima il colloquio tra arte (non solo performativa) e tecnologia era in genere una scelta stilistica. Oggi viviamo totalmente immersi nella tecnologia e nel digitale, tutte le arti sono intrise di questa contaminazione, perciò non penso si possa parlare più di una scelta. In più, la tecnologia dell’AI sta velocizzando moltissimo questi processi in maniera massiva.
Personalmente, però, sono del parere che la tecnologia quando non la si vede è sempre meglio. Non sono mai stato un amante dei grandi allestimenti con un utilizzo importante della componente tecnologica. Va benissimo usarla, ma non trovo che la sua vera forza sia come strumento scenico.
Al contrario, l’intelligenza artificiale ti dà la possibilità, ad esempio, di migliorare la fase di ricerca. Usciamo da un periodo di forte isteria nei confronti dell’applicazione della tecnologia alle arti performative, in cui spesso si vedeva un sacco di roba sul palco.
Ti riferisci a un passato recente?
Sì, certo. Gli ultimi dieci/vent’anni. Sembrava quasi un obbligo dover portare in scena questo richiamo alla tecnologia che, però, era ancora in una forma un po’ barocca.
Uno dei punti di forza del progetto Residenze Digitali consiste nel promuovere il binomio teatro/danza e creazione online in un Paese, l’Italia, tra i meno digitalizzati d’Europa in cui, inoltre, per la maggioranza della popolazione l’idea di teatro prevalente è ancora ferma al passato. Come vedi la situazione odierna? Può l’evoluzione in campo artistico aiutare la transizione digitale in senso più ampio?
Viviamo in un Paese che dal punto di vista espressivo ha forti connotati conservatori, non solo tra il pubblico, ma penso anche tra i produttori. È vero che la percezione dell’arte performativa è cambiata moltissimo negli ultimi anni, però la ricerca viene sempre posta tra il rapporto tra pubblico e artista. E io non credo che funzioni tantissimo questa cosa. Non vedo l’uso della tecnologia come un medium interessante per unire pubblico e artista, non è lì secondo me il punto. Ancora non ho capito bene quale sarà, se ci sarà, un punto di giuntura che vedrà la tecnologia come propulsore; ma al momento non vedo niente di interessante all’orizzonte.
Bisognerà continuare a cavarsela come si è sempre fatto in passato, ricercando sempre nuove forme. Il tentativo di ricreare un effetto forte tramite l’uso della tecnologia è destinato a fallire, perché è davvero difficile mettersi in competizione con ciò che fa parte della nostra quotidianità, che già è assurdo. Al contrario, invece, l’uso della tecnologia come propulsore di alcuni aspetti umanistici, secondo me, è molto interessante. Quello avrà un grande successo, immagino che sarà inevitabile.
Si aggiunga poi che il riferimento all’AI ormai sembra che abbia inglobato un po’ tutto il discorso sull’uso della tecnologia. Le persone, in gran parte dei casi, vedono questo strumento come un fornitore di risposte, quando invece, fondamentalmente, credo che l’intelligenza artificiale sia un grande archivio spaziotemporale e noi dobbiamo essere capaci di consultare questo archivio con le parole giuste, con le richieste giuste.
La ricerca con l’AI è molto più attiva, per questo motivo la cultura pregressa di chi consulta gioca un ruolo fondamentale. Oggigiorno la vera sfida è riuscire a consultare questo grande archivio in maniera sensata e riuscire a ottenere dei risultati interessanti.
Paradossalmente, siamo anche noi che ci dobbiamo addestrare a fare una ricerca.
Questo è un altro discorso gravoso, perché l’uso della lingua comincia a diventare una discriminante molto forte, molto più escludente delle capacità tecnologiche. Imparare un codice informatico è relativamente più semplice: posso farlo io, puoi farlo tu e possono farlo anche nell’altro emisfero in maniera agevole.
Al contrario, invece, la cultura pregressa e la capacità di utilizzare il linguaggio per concettualizzare un’idea o un immaginario non è una cosa scontata. È una capacità che va allenata e in cui la discriminante è la costruzione della propria cultura. L’intelligenza artificiale semplicemente mette a nudo questa situazione. Mi accorgo di quanto sia escludente non possedere questa capacità e lo trovo abbastanza pericoloso.