GIANNA VALENTI | Luci aperte, una sedia portata in proscenio, un corpo, il suo corpo, che procede incerto per affermare le azioni che codificano l’intero lavoro: chiacchierare, dialogare, raccontare, lasciarsi guardare, guardare e poi danzare, con una danza fatta di gesti come segni distillati di una presenza, segni performativi che declinano pensieri consapevoli e inconsapevoli e che hanno il potere di solidificarsi come tracce di memoria oltre il tempo della scena.
Pippo Delbono si offre agli sguardi degli spettatori e cerca i loro sguardi, schermando con la mano la luce proiettata dall’alto. Il suo corpo al centro della scena sceglie di abitare pienamente la relazione con l’altro, condividendo la fisicità e la verità del suo presente. Dopo the dark night of the soul, direbbero gli anglosassoni, con Il risveglio il regista abbraccia la sua intera esistenza, facendo viaggiare lo sguardo, il suo e il nostro, tra la giovinezza e il tempo presente, attraverso le correnti che lo trasportano, e ci trasportano, tra la luce e il buio, tra la leggerezza di un incontro giovanile e la profondità dolorosa di un testo rock dei Jefferson Airplane, tra parole di sensualità e carnalità cantate dagli Who e il discorrere ironico sulla vecchiaia.
Raccontare per farsi attraversare ancora una volta e per concedersi la possibilità di un domani diverso, cantare come atto di fiducia nella vita che il regista affida alla presenza iconica, proiettata a fondo scena, di una giovanissima Ornella Vanoni, e danzare affidandosi a un finale che non si fa chiusura ma festa, momento di gioia e di apertura, perché chiudere e andarsene è un po’ come morire, ci racconta.
Il Risveglio ha debuttato al Teatro Astra di Torino e aperto la Stagione 2024-2025 Fantasmi e fa parte della monografia d’artista che il Festival delle Colline Torinesi ha dedicato quest’anno a Pippo Delbono e che ha visto l’artista anche alla Fondazione Merz con La Notte da La notte poco prima della foresta di Bernard-Maria Koltès. Sempre come parte della monografica la proiezione dei suoi lungometraggi al Cinema Massimo: Guerra (2003), Grido (2006), Amore Carne (2011) e Vangelo (2016).
Le luci rimangono aperte, Delbono, sulla sedia e a scena vuota, chiacchiera, racconta e cerca un dialogo con i corpi e gli sguardi che gli stanno di fronte e che riesce a intercettare. I suoi racconti parlano di un percorso artistico che è da sempre percorso umano, di un guardare e riguardare la vita per farne teatro, di una costante ricerca di senso incrociando volti, parole, storie, ricordi e sguardi.
Siamo lontani dal testo onnipresente che ci arrivava dal buio della regia come voce fuoricampo in Amore, dove la sua presenza fisica — a parte la camminata di spalle e lo sdraiarsi finale — era completamente negata. Qui il suo corpo e la sua voce incarnano l’urgenza per la presenza dell’altro e un desiderio rinato di condividere la scena con gli attori/danzatori della sua compagnia; corpi ed esistenze che abbiamo imparato a riconoscere negli anni ma che il regista sente la necessità di ripresentarci uno alla volta, chiamandoli per nome. Nelle loro singolarità insostituibili, ecco allora Dolly Albertin, Margherita Clemente, Ilaria Distante, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Gianni Parenti, Pepe Robledo, Grazia Spinella che il pubblico applaude con affetto.
Corpi chiamati a sostenere le sue azioni e le sue narrazioni, corpi che danzeranno insieme a lui, o per lui, corpi pronti ad aiutarlo, perché dialogare con il proprio presente non è certo semplice e immaginare un futuro diventa possibile solo quando ad accompagnarti è qualcuno che ti conosce e che ha condiviso la tua storia, qualcuno che ti sa abbracciare e amare.
E tra i corpi e i ricordi presenti sulla scena per il suo teatro della vita non poteva non esserci Bobò, l’attore mancato nel 2019 con cui Delbono ha condiviso la scena e l’esistenza per 23 anni, il protagonista di tutti i suoi spettacoli a partire da Barboni nel 1997 sino a La Gioia nel 2018. Bobò “padre, fratello, maestro” che “aveva trovato un modo di sedurre Pina” — Pina Bausch, che ci ha lasciati nel 2009, maestra riconosciuta e amata dal regista. A loro, a queste presenze ancora così vive nella sua esistenza e nel suo lavoro, Delbono dedica lo spettacolo, facendo del racconto sulla loro relazione la linea narrativa centrale e delle loro presenze la chiave di comprensione della sua visione teatrale e coreografica.
Bausch adorava Bobò e non potrebbe certo essere altrimenti guardando le immagini finali di questo Risveglio. Le proiezioni interminabili, a fondo scena, di Bobò in bianco e nero, con piani di ripresa ravvicinati mentre danza su musica di Bob Marley, restituiscono con pienezza la lezione di Bausch sul gesto come segno compresso di un’esperienza. Il gesto come presenza performativa di ciò che il corpo ha attraversato e la danza come partitura e concatenazione di segni che per Delbono sono chiamati a mantenere in scena la qualità dell’estemporaneità con cui si sono manifestati una prima volta.
Bobò che qui, nel 2024 sulla scena del Teatro Astra, incarna una presenza performativa più forte di ogni altro corpo in presenza fisica.
Delbono che si aggancia alla gestualità di Bobò, rispecchiandola e riducendola, ma mantenendone l’intensità della presenza e che danza modulando una gestualità che colpisce per leggerezza, velocità e intensità del segno espressivo. E sempre lui che condivide domande e paure ancora senza una risposta, appoggiando movimenti e voce sulle musiche suonate in scena al violoncello da Giovanni Ricciardi.
E poi i suoi attori/danzatori capaci di abitare la presenza semplice di una corsa, di un girotondo, di uno stare, di un abbraccio, di uno sguardo, di un gesto o di un accenno di gesto — identità singole capaci di farsi coro nella diversità, capaci di presentarsi e di stare davanti al pubblico come fosse sempre la prima e ultima volta.
Un mondo, quello de Il Risveglio, in cui ancora abita la paura e la sofferenza, ma chi di noi non le attraversa, anche se a tratti, nella propria esistenza? Un mondo in cui però abita anche la possibilità di guardarle per comprenderle e trasformarle. “Luce che sei in me, fammi risalire come le aquile” sono le parole che Delbono rilascia nello spazio e che poi danza per superare quella paura “della vita, dell’amore, di restare senza amore” che ci ha fatto attraversare, per poi riconoscersi infine luce, amarsi e lasciarsi amare.
uno spettacolo di Pippo Delbono
con la Compagnia Pippo Delbono: Dolly Albertin, Margherita Clemente, Pippo Delbono, Ilaria Distante, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Gianni Parenti, Pepe Robledo, Grazia Spinella
e con Giovanni Ricciardi (violoncello e arrangiamenti)
luci Orlando Bolognesi
costumi Elena Giampaoli
suono Pietro Tirella
capo macchinista Enrico Zucchelli
organizzazione Davide Martini
assistente di produzione Riccardo Porfido
direttore tecnico Orlando Bolognesi
personale tecnico in tournée Manuela Alabastro (suono), Carola Tesolin (costumi), Corrado Mura (luci), Enrico Zucchelli (scena)
produttore esecutivo Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale (Italia)
co-produzione Teatro Stabile di Bolzano (Italia), Teatro Metastasio di Prato (Italia), Théâtre de Liège (Belgio), Sibiu International Theatre Festival/Teatrul Național “Radu Stanca” Sibiu (Romania), Teatrul Național “Mihai Eminescu” Timisoara (Romania), Istituto Italiano di Cultura di Bucarest (Romania), TPE – Teatro Piemonte Europa/Festival delle Colline Torinesi (Italia), Théâtre Gymnase-Bernardines Marseille (Francia)
in collaborazione con Centro Servizi Culturali Santa Chiara di Trento (Italia), Le Manège Maubeuge – Scène Nationale (Francia)