MARIA FRANCESCA SACCO / PAC LAB* | Mονάς (monàs) in greco vuol dire uno: per i pitagorici è l’arché, principio costitutivo dell’essere, per Giordano Bruno è una piccola particella che costituisce la realtà, mentre Leibniz ne parla come di un atomo spirituale indivisibile e unico che solo Dio può creare e distruggere. In generale, tutti i filosofi che abbiano dato un’interpretazione a μονάς, lo hanno fatto per comprendere l’essenza della realtà e, di conseguenza, la propria.
E oggi potremmo definirci altrettanto esploratori dell’essere?
L’esperimento portato in scena da Teatringestazione all’interno del festival Danae, alla Fabbrica del Vapore di Milano, nella performance partecipativa Mονάς (monàs), la reale sostanza delle cose, si confronta con lo scomodo binomio essere-apparire. Lo fa attraverso la filosofia del francese Guy Debord e la presenza della tecnologia.
La XXVI edizione del festival ha come tema il giardino: ultimo luogo di spiritualità e poesia, dove risiede il proprio Io e cioè l’essenza.
La performance di Teatringestazione, compagnia napoletana che nasce nel 2006 grazie a Anna Gesualdi e Giovanni Trono, emerge da un progetto di ricerca nato con l’idea di “smarginare”, di uscire dall’ordinario, ponendo in crisi le credenze precedenti e i luoghi convenzionali del fare teatro. DERIVA è il nome del gruppo di studio che si è incontrato periodicamente discutendo sulla Società dello spettacolo di Debord, il cui esito è stato proprio Mονάς (monàs), la reale sostanza delle cose, «gioco» in cui lo spettatore sembra essere protagonista attivo, co-creatore della performance.
La premessa che Gesualdi fa prima di lasciar entrare in sala il pubblico è una sorta di vademecum, l’elenco delle regole del gioco, come se stessimo per entrare in Matrix: uno schermo divide in due lo spazio, un playground e un luogo di contemplazione. Chiunque può passare da una parte all’altra liberamente purché, per andare nel campo da gioco, si indossino le cuffie che sono su un tavolo. «Toglietevi i cappotti che ingombrano». E via, in scena.
Il playground, accessibile con indosso le cuffie che trasmettono musica techno, è un luogo di azione dove lo spettatore diventa attore e regista, un demiurgo in realtà. Infatti, sullo schermo egli vede se stesso riprodotto grazie a una telecamera e ogni suo movimento, restituito istantaneamente, domina la scena, essendo in effetti tutto quello che accade. Tuttavia ogni gesto è alterato: frammentato, rallentato, sfocato. Al centro c’è il performer Trono, che si muove continuamente dando spunti anche agli altri.
Lo spazio della contemplazione è complementare al primo: da qui è possibile vedere, stavolta da osservatori passivi, ciò che avviene dall’altra parte ma sempre sullo schermo. Non si sente la musica, bensì un’intervista in lingua originale a Debord la cui voce, non in sincrono con le scritte tradotte in italiano, sembra più un’intervista con se stesso, un flusso di coscienza. Da questo momento qualcosa inizia a cambiare nello sguardo di chi assiste, come se il gioco fatto fino ad adesso, divertente per giunta, ci stesse crollando sotto gli occhi: le riflessioni di Debord su una società basata sullo spettacolo, il cui unico bisogno è sentirsi vista e apparire, si confondono con i movimenti sullo schermo di coloro che si dimenano dall’altro lato. Si ottiene un effetto straniante che fa mettere in discussione ciò che si è creduto fino ad ora: se si era pensato di essere creatori di partiture di movimento irripetibili, si realizza d’un tratto che ciò che appare di noi sono solo frammenti, immagini bloccate, deformate, rallentate. Non c’è l’essenza di nessuno, tutti sono ugualmente irriconoscibili e snaturati. Tutti sostituibili, svuotati e partecipi di una «micro società provvisoria», fittizia e labile.
Pare che il vero protagonista sia però lo schermo, feticcio, oggetto di continue attenzioni, l’unico in grado di sancire la presenza di ogni essere vivente, giustificandone, così, l’esistenza. Se si pensa alla realtà nella quale si vive, niente potrebbe suonare più realistico: il nostro essere si perde tra foto e video sui social, immolato in favore dell’apparire. La maschera pirandelliana oggi è diventata così lo schermo (come aveva predetto Debord negli anni ’70) e una società del genere è destinata a divenire massa, priva di identità, incapace di cogliere la differenza tra quello che è reale e quello che non lo è e, di conseguenza, diventa manipolabile, soggetta a ogni tipo di potere. Viene subito in mente Hannah Arendt che scrive «il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto oppure il comunista convinto, ma le persone per le quali non c’è più differenza tra realtà e finzione, tra il vero e il falso» (Le origini del totalitarismo, 1951)
Ciò che fa di questa performance, tra istallazione e happening, una trappola che funziona, come la definisce Gesualdi, sta proprio nello smascherare l’incapacità dello spettatore di abbandonare il campo da gioco e smettere di dimenarsi davanti alla camera: addirittura qualcuno deve essere invitato esplicitamente a lasciare il playground perché la performance possa andare avanti. Il pubblico che continua a muoversi in scena, forse fa emergere il proprio desiderio inconscio (o indotto?) di apparire, per non cadere nell’oblio. Questa sarebbe l’alternativa, del resto: una volta che Trono rimane solo in scena e senza schermo (fatto calare come un sipario), infatti, pur ricreando le stesse mosse fatte precedentemente, i suoi movimenti diventano vuoti, inesistenti e inconsistenti, e la luce si fa sempre più piccola fino a farlo sparire nell’oscurità. Senza schermo non si è.
E «grazie per aver giocato», chiosa amara Gesualdi.
MONAS, LA REALE SOSTANZA DELLE COSE
una creazione di Teatringestazione
ideazione, regia e attuazione Anna Gesualdi, Giovanni Trono
drammaturgia Loretta Mesiti
con il sostegno delle residenze IntercettAzioni – Centro di Residenza Artistica della Lombardia, Artists in ResidenSì/Ateliersì – Bologna, Prima Onda Festival/Genìa – Palermo.
Fabbrica del Vapore, Milano | 1 novembre 2024
* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.