EUGENIO MIRONE | Il cervello è la parte del nostro corpo più complessa e misteriosa. Il suo funzionamento è da secoli al centro dell’indagine dell’uomo che, per sete di conoscenza o semplice desiderio di comprendersi un po’ meglio, aspira a svelarne i meccanismi più profondi. Da qualche tempo ormai tutto questo sembra più concreto, da quando cioè abbiamo imparato il linguaggio di cui il cervello si serve per tradurre in impulsi elettromagnetici tutto quanto ci coinvolge: pensieri, emozioni, sensazioni e capacità di immaginazione.
Dal semplice monitoraggio delle attività cerebrali attraverso un elettroencefalogramma, presto saremo in grado (e lo siamo già) di interagire con questi impulsi elettromagnetici. È di qualche mese fa la notizia della prima sperimentazione su un paziente umano di Neuralink, l’azienda del multimiliardario Elon Musk che punta a impiantare dei microchip nel cervello di persone con compromissioni neurologiche con l’obiettivo di far recuperare loro alcune facoltà biologiche ormai perdute, come il movimento di una mano. E per ora ci fermiamo qui.
Al di là dei discorsi sul personaggio, che stando alle ultime vicende sembra esser destinato a diventare il primo co-presidente nella storia degli Stati Uniti d’America, ciò che meraviglia e mette un po’ in soggezione è l’immensa frontiera di progresso di fronte alla quale ci troviamo. Se ancora siamo alle prese con le difficoltà di interazione dall’interno con il cervello, immaginare di invertire la direzione e quindi di poter inserire materiale inedito all’interno di esso, non costa nulla. O meglio costerà decine di milioni di dollari, ma l’interesse degli investitori è alle stelle.

Su questo ultimo punto si concentra Spazio Latente, il progetto su cui Filippo Rosati ha avuto modo di lavorare durante la sua residenza digitale e che verrà presentato al pubblico in occasione della Settimana delle Residenze Digitali in programma dal 28 novembre all’1 dicembre.
Spazio Latente immerge il pubblico in un teatro anatomico virtuale all’interno del quale sarà possibile assistere, tramite una diretta sulla piattaforma Twitch, a un’operazione chirurgica di inserimento di un dispositivo impiantabile nel cervello di P1, il personaggio che ha deciso di farsi “hackerare” e innestare memorie ed esperienze altrui, per recuperare una fiamma di vita nuova. Gli spettatori potranno decidere post-operazione se archiviare tutti i ricordi precedenti o se eliminarne qualcuno.
Ma oltre al semplice intrattenimento, Spazio latente funge anche da piattaforma per esplorare domande profonde sulla natura della coscienza, sull’identità e sulle implicazioni etiche delle neurotecnologie emergenti in un mondo in cui i confini tra digitale e organico sono sempre più sfumati.

Filippo Rosati è fondatore di Umanesimo Artificiale. Laureato in Marketing e Strategic Management presso l’Università Bocconi con Double Degree presso la Copenaghen Business School, negli ultimi dieci anni ha viaggiato in più di 30 Paesi, studiato e lavorato in campi diversi e culture diverse. Al termine di un’esperienza di tre anni a Singapore come manager di una agenzia creativa con Google come unico cliente, decide di rientrare in Italia per intraprendere un progetto di startup nel campo dell’Intelligenza Artificiale e – parallelamente – fondare Umanesimo Artificiale, un’associazione culturale che promuove il pensiero creativo-computazionale attraverso il canale delle arti digitali e dello spettacolo e sensibilizza verso una relazione fertile tra artisti e nuove tecnologie.
Umanesimo Artificiale lavora con tecnologie esponenziali in campo artistico e opera in tutto il mondo dall’Italia, con una rete di partner europei. È una realtà che nasce con l’intento di indagare cosa significa essere umani nell’era dell’intelligenza artificiale. Su questo tema e sull’imminente presentazione al pubblico di Spazio Latente abbiamo avuto modo di confrontarci con Rosati.

Filippo, nella tua vita hai viaggiato molto e hai sperimentato diverse posizioni lavorative, come sei approdato a Umanesimo Artificiale?

È stato un processo organico. Il mio ambito è sempre stato abbastanza multidisciplinare. La mia formazione di base si è svolta nel campo del general marketing e successivamente mi sono specializzato a Copenaghen in quello che viene chiamato il neuromarketing, ovvero l’applicazione di tools neuroscientifici – come può essere l’elettroencefalogramma, la risonanza magnetica, le prime forme di Eye Tracking per l’online e quant’altro – al marketing. In seguito, nelle mie esperienze lavorative tra Parigi, Milano e Singapore mi sono sempre occupato anche della parte di ricerca. Lasciata l’Asia sono tornato in Italia e insieme ad altri due soci abbiamo avviato una start-up business nel campo dell’intelligenza artificiale.
Durante questa esperienza ho potuto continuare a indagare quelli che erano gli sviluppi dell’intelligenza artificiale anche da un punto di vista più speculativo. E quindi ho avuto l’occasione fin da subito, quando sono ritornato a Fano, di fondare, ufficialmente nel 2018, un’associazione culturale Umanesimo Artificiale. Al centro della ricerca abbiamo sempre posto l’essere umano: che cosa significa essere umano nell’era dell’intelligenza artificiale? È questa la domanda che ci ha guidato in tutti questi anni. È una domanda aperta, filosofica, a cui cerchiamo di dare una risposta attraverso il canale delle arti.
Quello che ci caratterizza non è tanto ciò che facciamo, perché possiamo fare cose completamente diverse, ma come lo facciamo, l’approccio all’indagine. Lavoriamo principalmente con quelle che si chiamano tecnologie esponenziali, ovvero quelle tecnologie che hanno una crescita continua, come, appunto, l’intelligenza artificiale. Abbiamo sviluppato mondi virtuali in CGI e in VR, creato musica con il live coding e, da un paio d’anni, stiamo indagando come le tecnologie stiano diventando sempre più vicine al corpo umano.

Filippo Rosati

Mai come in questo periodo la tecnologia ha raggiunto una potenza tale da permettersi di auto-apprendere e quindi di avvicinarsi sempre più al modo di pensare umano, ma allora non ha più senso forse parlare di “umanizzazione” dell’artificiale?

A mio parere il punto centrale da comprendere è che le macchine non arriveranno mai a eguagliare o replicare l’essere umano, soprattutto il cervello umano, di cui ancora fatichiamo a comprendere il funzionamento. Il 90% del cervello, infatti, è inconscio e non siamo in grado di definire cos’è. Quindi, se non siamo capaci di capire cos’è e come funziona, non siamo nemmeno in grado di replicarlo attraverso gli algoritmi. Più che l’uomo che diventa macchina o la macchina che diventa uomo, il nostro futuro si muove in direzione di una collaborazione, un processo di co-creazione con le intelligenze artificiali.
La questione dell’antropizzazione della macchina si lega a un discorso di empatia, lo si vede molto nei robot: perché hanno sembianze umane? Perché l’essere umano è cresciuto nei millenni con un’empatia nei confronti dei suoi simili.
Secondo me la cosa interessante è un’altra. Oggigiorno la potenza computazionale ha raggiunto un livello tale per cui adesso riesce a fare alcune cose meglio degli esseri umani: l’intelligenza artificiale ricorda molte più cose, riesce a fare dei ragionamenti molto più veloci. Questo accade perché possiede un livello di profondità che il nostro cervello non ha. In questo senso ritorna il quesito alla base della nostra ricerca.
Da un certo punto di vista le macchine stanno togliendo stabilità all’uomo, che si è identificato nella sua capacità di pensiero e di prendere decisioni. Ora esistono macchine che, sotto alcuni aspetti, riescono a fare queste cose meglio, è naturale chiedersi quale sia, allora, il ruolo dell’essere umano nella nostra società.

In tutto questo s’inserisce la quinta edizione di Residenze Digitali, alla quale partecipate con il progetto Spazio Latente, spiegaci un po’…

La nostra sede è a Fano, non distante da Pesaro che quest’anno è stata designata capitale italiana della cultura. Per questa occasione ci è stato affidato un progetto di dossier volto ad indagare il rapporto uomo-macchina da tre punti di vista: la tecnologia fuori dal corpo, che si lega all’ambito dei mondi virtuali e degli avatar; la tecnologia indossabile, si tratta ad esempio di second skin oppure di sensori indossabili che vengono applicati sul corpo; e, infine, la tecnologia impiantabile. Gradualmente ci siamo sempre più avvicinati al cervello e agli impianti neurali.
Già nella prima edizione avevamo partecipato al bando delle Residenze Digitali, abbiamo perciò deciso di applicare nuovamente per continuare la ricerca e ottenere nuovo budget. All’inizio il progetto si chiamava Neuralink Theater, poi abbiamo cambiato il nome in Spazio Latente perché volevo togliere il nome di un’azienda. Lo spazio latente è riferito all’intelligenza artificiale, ma può essere anche inteso come la nostra mente.
In futuro, fra 200, 300, 400 anni, ma magari anche fra 50 anni, quando tutti avremo la possibilità di inserire un neuralink o un impianto neurale all’interno del corpo o qualsiasi tipo di tecnologia nel cervello, in virtù di questa connessione tra cervello e macchina, cosa significherà essere umani e come cambierà il rapporto tra persone?

Come avviene tutto questo in scena?

Abbiamo creato un teatro anatomico in 3D su Unity dove si svolgerà un’operazione chirurgica su un paziente, un metahuman (un personaggio non in carne ossa per intenderci). L’idea è stata quella di riportare in chiave futuristica, attraverso l’utilizzo di robot, il teatro anatomico del XV e XVI secolo, dove avvennero i primi studi anatomici volti a comprendere come funzionava il corpo umano.
Senza svelare troppo, nella prima parte si avrà modo di conoscere il paziente che ha deciso di sottoporsi a questo intervento. Al pubblico, che avrà assistito all’operazione tramite la piattaforma Twitch, verrà data la possibilità di accedere al neuralink del paziente e di agire su di esso, cancellando vecchi ricordi o inserendo nuove memorie. Con un software verrà, dunque, a crearsi una nuova memoria che sarà impiantata all’interno del paziente. Alla fine è previsto un ultimo confronto con lui, come anche la possibilità per gli spettatori di dialogare e confrontarsi fra loro.

Quali sono state le sfide più grandi durante la residenza? È stato utile in questo senso il confronto con i tutor?

La sfida più grande è stata senz’altro trasformare l’idea in un progetto concreto e questo si collega fondamentalmente alle difficoltà di sviluppo tecnico che un lavoro del genere richiede.
La seconda sfida è stata anche quella di rendere performativo questo progetto. Federica Patti e Laura Gemini inizialmente avevano il timore che il risultato finale non sarebbe stata una performance vera e propria, anche se poi bisogna capire cosa significa performance. Per me, infatti, è sostanzialmente il momento in si mette in scena qualcosa creando interazione, in questo caso virtuale, con il pubblico.
Molto spesso le performance sono passive, quando uno va a teatro ad esempio non ha la possibilità di interagire; in questo caso invece c’è un’interazione. Quindi la sfida è stata rendere il progetto sostenibile, da un lato, a livello tecnico, dall’altro sul piano della performatività. Il confronto con i tutor è stato utile, soprattutto, in questo secondo ambito.

Quanto siamo distanti dal futuro in cui è ambientata la performance dove l’umanità ha perso completamente il controllo sugli algoritmi che ha sviluppato? Da come ne parli non sembra si tratti di se, ma di quando.

Stiamo parlando di tecnologie esponenziali, che quindi hanno una crescita continua nel tempo. Prendiamo l’esempio Neuralink che ha portato il tema sotto l’attenzione di tutti con la prima sperimentazione, di qualche mese fa, su di un paziente umano. Nel momento in cui il progetto di Musk s’impone come pioniere, si svilupperanno (e già c’erano e ci sono) altre aziende che opereranno nello stesso campo. Presto si raggiungerà un punto in cui queste tecnologie saranno sicure e ci consentiranno di migliorare le nostre vite non solo, come avviene ora, con il recupero di funzioni per persone con disabilità ma anche aumentando le capacità dei normodotati. Penso che dal giorno immediatamente successivo ci saranno file di milioni di persone che vorranno farsi installare questi dispositivi.
Se ci si riflette, siamo già dei cyborg, basti pensare all’utilizzo di protesi sempre più complesse o ai peacemaker. Elon Musk ha creato Neuralink con una visione: per lui arriveremo presto ad avere macchine talmente intelligenti che, se non ci evolveremo anche noi dal punto di vista biologico, scompariremo. Questa è la sua teoria, ma anche se non arriveremo fino a quel punto, sicuramente bisognerà oltrepassare il nostro limite biologico.
Il punto è creare un sistema perché l’utilizzo di queste tecnologie non mini la sopravvivenza dell’uomo, come si cerca di fare con le armi nucleari ad esempio. Il problema dell’intelligenza artificiale oggi è che ci sono poche persone che sanno come funzionano e quelle poche persone lavorano per Google, per OpenAI. All’interno dei governi, invece, non c’è nessuno che sa come funzionino, quindi non c’è nessuno che è in grado di governarle. Bisogna perciò accrescere la conoscenza perché solo conoscendo un fenomeno si è in grado eventualmente di limitarlo.
Questo lo abbiamo visto con i social network, per cui si era partiti in quarta per poi scoprire che comunque un loro utilizzo errato poteva essere molto dannoso. Dall’altro lato, però, bisogna fare dei ragionamenti sensati con una conoscenza alla base e lavorare in direzione di una regolamentazione senza limitare la ricerca scientifica.