ESTER FORMATO e ELENA SCOLARI | Dopo gli allestimenti di Il Gabbiano e Zio Vanja (raccontati da PAC), Leonardo Lidi firma il terzo capitolo del suo progetto dedicato a Čechov: Il giardino dei ciliegi, debuttato al Festival di Spoleto (coproduttore insieme a Teatro Stabile dell’Umbria e Teatro Stabile di Torino) nell’estate 2024. Stavolta, molto diversamente dal precedente spettacolo in cui i protagonisti erano costretti in uno spazio angusto, Lidi immagina i personaggi dell’ultimo dramma scritto dall’autore russo in un ambiente grande, dalle luci fredde e monocromatiche. La scena e le luci di Nicolas Bovey sono concepite con colori tetri e metallici e con un tendaggio traslucido nero che perimetra i tre lati della scena e che, insieme a sedie in plastica da bar, posizionate qui e là, costituisce uno scenario decisamente inedito per l’opera rappresentata.
ES: Il giardino è già nella pattumiera, cara Ester. La villa di campagna, il mobilio, i personaggi, i loro ricordi e le loro speranze sono già tutti in un bel sacco nero. Di plastica.
Non solo: anche il loro futuro è già un rifiuto. Nell’intervista rilasciata a PAC Leonardo Lidi afferma che “Il giardino dei ciliegi è una grande metafora dell’inutilità di questo teatro che, come il giardino, non è più utile a livello produttivo perché i ciliegi non maturano più, perché maturano ogni due anni e allora la scorciatoia sembra privatizzare o vendere per utilizzare il luogo in modo usa e getta”.
Personalmente, mi sembra una posizione arbitraria e trovo difficoltà a considerarla un’interpretazione del lavoro di Čechov. Intendiamoci: nelle intenzioni dell’autore c’era sicuramente una critica e forse ancor più una preoccupazione per la nuova borghesia, ancora inconcludente e incerta dopo la caduta dell’aristocrazia; il suo era un umanesimo che presentiva lo sconquasso della rivoluzione del 1917, ma ricondurre il senso ultimo dell’opera all’ambiente teatrale mi pare limitativo e autoriferito. Il disorientamento esistenziale cui pensava Čechov va ben al di là di qualunque contesto specifico.
EF: Sin dalle prime battute della recita, Lopachin (Mario Pirrello), figlio di un servo che lavorava alla tenuta, ora arricchitosi, appare interessato a metterci le mani sopra, ben consapevole che la proprietà finirà presto all’asta. È lui, infatti, che accoglie il rientro di Ljuba (Francesca Mazza) e di tutta la combriccola di famiglia da Parigi, intonando Ritornerai di Bruno Lauzi da un microfono a filo, comportandosi già come un novello padrone di casa. Dietro di lui, assiso come su un trono, su una sedia a rotelle, c’è il vecchio servo Firs (Tino Rossi), volutamente reso monolite o elemento d’arredo, insomma inscindibile dall’ambiente, ora inerme e impotente rispetto allo stesso Lopachin di cui questa scenografia così insolita sembra essere la proiezione; come a far capire che tanto ormai, seppur ancora non ufficialmente, i giochi sono fatti. Insomma, il giardino e la casa di Ljuba e di suo fratello Gaev (qui trasformato in una sorella) sono colti in una cupa agonia che ne ha già trasfigurato le caratteristiche.
ES: Il servo Firs è un personaggio bellissimo, Rossi qui si rende mobilio discreto, le ragazze si siedono sulle sue ginocchia come su una poltrona, lui è parte della casa ed è anche chi, della casa e dei suoi abitanti, tutto sa. Quanto a Lopachin, è un uomo che “prende l’ascensore sociale” e si riscatta diventando padrone della tenuta in cui serviva, si illude di umiliare i vecchi proprietari ma si ritroverà solo e con un pugno di mosche. Pirrello ne fa un gaglioffo un po’ rozzo (con toni simili a quelli usati per il dottor Astrov di Zio Vanja) ma l’atmosfera generale impedisce di avvertire la sua sottile soddisfazione e non permette di dare a questo fatto il giusto peso.
EF: Il regista ci sta quindi forse dando scacco matto? Osserviamo Ljuba e i suoi compagni dimenarsi sotto luci al neon fissate a un ring mobile, pronto a essere calato e a trasformarsi all’occorenza in pedana per circoscrivere precisi spazi scenici. Scomparso è il legno di betulla che avevamo visto in Zio Vanja e che tanto richiamava i discorsi di Astrov sul mondo in trasformazione, la sete di denaro e di profitto che sovrastano la natura. Adesso Lidi ci mostra tutto questo a fatti compiuti, facendo del giardino dei ciliegi, ormai prossimo all’abbattimento, non più un estremo tentativo di resistenza alla metamorfosi paventata dall’industrializzazione, ma già di per sé un “non luogo”.
ES: Il regista si è piuttosto dato scacco matto da solo: tutta l’eccessiva esagitazione degli attori (che dura per i 2/3 dello spettacolo) che gridano, ballano, corrono insensatamente da una parte all’altra del palco, è un’evidente rappresentazione per contrasto dell’immobilismo che di solito riveste i personaggi cechoviani, affamati di vita ma inabili ad afferrarla. Lidi li fa continuamente rimbalzare come molle sopra qualunque riga di buona creanza, scossi da corrente elettrica, in attesa del giorno in cui il giardino sarà battuto all’asta e dopo il quale tutti si placheranno. Questo potrebbe pure essere coerente con il tormento interiore della famiglia Ranevskaja ma è talmente insistito da risultare un’immagine dal significato troppo, troppo chiaro e quindi schematico e semplificatorio. E la fa addirittura spiegare a Lenja Andreevna, sorella di Ljubov’ (chissà perché la trasformazione da fratello a sorella), che affermerà proprio (cito a memoria): «eravamo tutti agitati fino al giorno della vendita, ora ci siamo calmati».
EF: L’interpretazione che fa Lidi sembra infatti non tener conto di una componente imprescindibile della scrittura cechoviana che è ricca di sfumature, di sussulti, di toni smorzati, motivo per cui le scelte riguardo alla scenografia appaiono troppo nette per riconoscere la densità lirica che accompagna i cambiamenti narrati. Ad esempio, l’idea della scena sul presunto bordo piscina sembra ulteriormente snaturare il prezioso contesto del dramma; qui Lidi immagina alcuni personaggi scambiarsi messaggi segreti (una piccola sottotrama è la storia fra Anja, interpretata da Giuliana Vigogna, e l’insegnante Trofimov, qui Christian La Rosa), nei loro costumi da bagno moderni, con una voluta indifferenza rispetto ai cambiamenti che si addensano nel resto del mondo. La superficialità dei protagonisti come Ljuba o la poca ponderatezza e lucidità dell’inedita sorella Lenja (Orietta Notari, brava nell’essere mossa da una certa autorevole pacatezza) hanno poco a che vedere con la loro originaria “stoltezza”, misto fra ingenuità e pigrizia, che li pone fra l’infantile e il capriccioso: bambini non cresciuti, irresponsabili. Lidi sceglie piuttosto di sostituire la decadenza della loro volontà con caratteri più borghesi, accentuando dei tratti quasi consumistici contemporanei e facendo affiorare una nevrosi nelle loro azioni che li assiste per tutto lo svolgimento della storia.
ES: Sono del tutto d’accordo. E per tracciare una linea che guardi anche agli altri due spettacoli della trilogia, cercando di intravederne il percorso, direi che c’è stato un progressivo smarcamento dai colori, dai toni, dalle atmosfere descritte nei drammi originali: più timido Il gabbiano, più sfacciato Zio Vanja (senza dubbio il meglio riuscito), azzardato questo Giardino.
C’è anche la scelta, pare ultimamente in voga, di vestire volutamente male gli attori, probabilmente per creare un effetto sgradevole complessivo: qui hanno tute da ginnastica in acetato, completi assortiti con colori fluo disarmonici, abitini dozzinali di strass… Charlotta Ivanovna è interpretata da Maurizio Cardillo con una pellicetta di montone giallo e pantaloncini corti, tutto a rendere i caratteri anche esteticamente inadeguati a un mondo dove non sanno come collocarsi.
EF: Si arrabattano a fatica all’interno di quelle mura che di fatto sono squallidi pannelli traslucidi, inscenando un’illusione che in fin dei conti è beffardamente svelata da tutto il corredo scenografico. A riprova di questa discrepanza fra quel che dicono e quel che hanno intorno, Lenja, nell’elogiare un prezioso mobile nella stanza dei bambini, non fa che prendere un grande faro con luci a led, quasi come se ci fosse in atto una sotterranea parodia dell’opera stessa.
ES: Ma più che dell’opera si fa parodia di un modo di metterla in scena.
EF: Questa prospettiva potrebbe essere interessante se non fosse che, durante gran parte dello spettacolo, i personaggi finiscono per disperdersi nello spazio scenico, creando una disgregazione nella loro orchestrazione tanto da far risultare difficile afferrare i loro caratteri. Quello che voglio dire è che l’evanescenza, l’inquietudine, la vaga consistenza appartengono proprio a Čechov ma in questo allestimento la poesia di cui sono costituiti i suoi personaggi sembra perdersi; mentre sono iperattivi e si affannano, gli stessi faticano, insomma, a rivelarsi al pubblico nella loro organicità.
ES: Già, c’è un livello di autonegazione travestito da festa malriuscita, che dovrebbe solo trasparire dalle azioni malferme e dai repentini cambi di intenzione e stati d’animo e che invece è assai esibito.
EF: A livello drammaturgico non vi sono cambiamenti importanti; Lidi mantiene l’originalità del testo, aggiungendo qua e là qualche piccola modifica, non così sostanziale, ma in ogni caso funzionale alle sue scelte registiche. Eppure, pur trattandosi di piccole libertà, queste caratterizzano tutto l’allestimento, investito da un tocco di metateatro, quando, sul finale, l’addio alla tenuta è reso attraverso lo smontaggio della scenografia. Tutto svanisce, il retropalco torna visibile, non c’è più nulla, se non la voce del vecchio Firs, destinato alle cure ospedaliere.
ES: La traduzione di Fausto Malcovati è moderna, non dà particolari indirizzi, giacché questi sono tutti nelle scelte di regia, dalla recitazione sovreccitata ai costumi pacchiani e un po’ patetici di Aurora Damanti – paillettes che brillano di una luce falsa – al suono molto presente curato da Franco Visioli. Se il marito di Ljubov’ Andreevna «è morto di champagne» era sicuramente una bottiglia di quart’ordine presa alla Lidl, mai è stata veramente toccata la luccicanza parigina agognata da chi ha vissuto di sogni, spenti insieme all’appassire del giardino.
Firs rimane solo, unica anima della tenuta. Tutti se ne vanno, i giovani a inseguire qualunque cosa che non guardi al passato – vissuto come retorica – e, caduti i sipari di plastica netturbina, il servo in smoking rimane anche l’unico a sparire dalla scena e dalla vita nascondendo il viso dietro un piccolo sipario-tovagliolo beckettiano, come si faceva da bambini.
IL GIARDINO DEI CILIEGI
Progetto Čechov, terza tappa
di Anton Čechov
traduzione Fausto Malcovati
regia Leonardo Lidi
interpreti e ruoli:
Ljubov’ Andreevna Francesca Mazza
Anja, sua figlia Giuliana Vigogna
Varja, sua figlia adottiva Ilaria Falini
Lenja Andreevna, sorella di Ljubov’ Orietta Notari
Ermolaj Alekseevic Lopachin Mario Pirrello
Peter Sergeevic Trofimov Christian La Rosa
Boris Borisovic Simeonov-Piscik Giordano Agrusta
Charlotta Ivanovna Maurizio Cardillo
Semen Panteleevic Epichodov Massimiliano Speziani
Dunja Angela Malfitano
Firs Tino Rossi
Jasa Alfonso De Vreese
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Aurora Damanti
suono Franco Visioli
assistente alla regia Alba Porto
produzione Teatro Stabile dell’Umbria in coproduzione con Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Spoleto Festival dei Due Mondi
Piccolo Teatro Strehler, Milano | 12 novembre 2024