GIULIA BONGHI | Jessica Pratt, soprano di fama internazionale, è tra le voci più apprezzate del panorama belcantistico. La sua carriera l’ha vista brillare nei ruoli di virtuosismo vocale, ma recentemente ha sorpreso il pubblico con una straordinaria interpretazione di Elisabetta in Roberto Devereux, presentata al Festival Donizetti Opera. L’abbiamo incontrata.
Ho avuto il piacere di assistere alla tua interpretazione venerdì scorso, un’esperienza che mi ha colpita profondamente. Vorrei partire proprio da questo ruolo: si tratta di un repertorio che si allontana da quello belcantistico nel quale eccelli da sempre. Come hai affrontato il personaggio di Elisabetta?
In questo ruolo, in particolare, c’è tantissimo bisogno della parola e di un suono che non è sempre ‘bello’. Elisabetta ha più di sessant’anni ed è una donna che dovrebbe anche fare paura. Perciò, qui uso molto di più le note di petto. Nel belcanto, le uso in modo più leggero e sono molto più rare, magari solo alla fine di una cadenza. Qui, invece, ci sono intere frasi da cantare in petto, e questo ha richiesto uno studio, perché non ero abituata a usarlo così tanto. Ci ho messo due anni per trovare sicurezza in questa zona.
Comunque, io non credo che ci sia un solo tipo di voce per interpretare certi ruoli. Ad esempio, si può andare da un lirico leggero, cioè un lirico di coloratura, fino a una versione più drammatica. Però, se si fa completamente drammatica, si perde tutto quello che Donizetti ha scritto nella coloratura. Anche quella, se fatta a tempo come è scritta, ha emozione e caratterizza il personaggio. Certo, chi ha una voce molto grande può fare un effetto impressionante, incutere timore e dare potere al personaggio, ma perde la flessibilità che serve per muovere la scrittura belcantistica.
Poi, dobbiamo ricordare che certi preconcetti moderni non corrispondono a come si pensava all’epoca. Ad esempio, la stessa cantante, Giuditta Pasta, interpretava sia La sonnambula che Norma nello stesso periodo. Non possiamo dire che per la prima serva una voce leggera e per la seconda una lirico-drammatica, perché non era così. Inoltre, noi oggi non cantiamo come allora. Le orchestre erano più piccole, i teatri meno grandi, e c’era un’estetica completamente diversa.
Oggi dobbiamo adattarci ai teatri grandi, alle orchestre potenti e al gusto moderno. Ogni tanto, bisogna anche sfidare questo gusto.
Infatti, Riccardo Frizza – direttore artistico del Festival e direttore di Roberto Devereux – parlando del ruolo di Elisabetta, ha usato il termine “agilità drammatica”.
Consiglieresti di cambiare maestro a seconda delle necessità del repertorio?
Personalmente, non cambio maestro per i ruoli. Ho studiato per tanti anni con Renata Scotto, poi con Lella Cuberli, ora con Mariella Devia. Ho cinque o sei maestri di riferimento sparsi per tutta Italia. Inoltre, lavoro anche con Kamal Khan online quasi tutte le settimane. Per me l’importante è lo studio continuo, la ricerca costante nella voce e nella musica. C’è sempre qualcosa di nuovo da imparare e scoprire. Quando si smette di studiare, si smette di crescere come artista.
Il personaggio, nell’opera lirica, lo si trova prima di tutto nella voce, e anche nella musica. La musica accompagna e informa moltissimo. Con Elisabetta, quando ho studiato lo spartito, ero convinta che fosse un ruolo adatto a me: dove ci sono i passaggi più pesanti, come nel finale del secondo atto, l’orchestrazione è sorprendentemente leggera. Non c’è bisogno di gridare: Donizetti non l’ha scritto così. Ha messo pochissimo sotto la voce, e questo ti permette di lavorare con i colori, con i ritmi e con il modo in cui poni il suono. Io, personalmente, parto sempre dalle parole: le recito, le ascolto, e poi studio l’orchestrazione. Questo approccio mi aiuta moltissimo a capire come costruire il personaggio.
Studi anche con il pianista per trovare e approfondire il personaggio?
È essenziale, perché è importante avere l’opinione degli altri. Non siamo un’isola. Per me, preparare un ruolo significa lavorare con due o tre maestri al pianoforte, con la Devia, con il mio vocal coach Kamal, e mi piace avere diverse opinioni. Preferisco partire dallo spartito e costruire un’idea da sola, con i miei mezzi, prima di confrontarmi con altri. Dopo aver lavorato con persone di cui mi fido e che apprezzo per il loro gusto, solo allora, forse, ascolto qualche registrazione. Non lo faccio sempre, perché non voglio rischiare di adottare idee altrui inconsciamente. Quando ascolti troppo, capita che certe scelte ti si imprimano senza rendertene conto, e preferisco evitarlo.
Quanto tempo hai a disposizione solitamente per preparare un ruolo?
Non ho molto tempo a disposizione. Studio ovunque: in treno, in aereo, durante le prove, o persino tra una recita e l’altra. In media, debutto dai cinque ai sette ruoli all’anno, faccio una decina di produzioni e sono in giro per undici mesi l’anno. Per fortuna, oggi la tecnologia mi aiuta molto: posso lavorare online con Kamal, con mio padre, che è anche lui un insegnante, o con il mio coach tedesco. Questo mi permette di studiare ovunque mi trovi.
Quando arrivi alle prime prove in teatro e inizi a lavorare con il regista, solitamente ti trovi in sintonia con la sua visione del personaggio? Oppure capita che certe interpretazioni ti mettano in difficoltà?
Non ho mai avuto grossi problemi con i registi, per fortuna. Per me è fondamentale capire cosa chiedono, perché non posso “vendere” qualcosa al pubblico se non ci credo. Ogni tanto, se un regista mi chiede qualcosa che va contro la mia visione, cerco comunque di provarci per almeno un paio di settimane. Ad esempio, con un’opera come Lucia, che ho cantato tante volte, ho idee molto consolidate su certi aspetti. Ma sono aperta a cambiare idea se mi convincono. Se, alla fine, non sono d’accordo, ne parliamo e troviamo un’altra soluzione. L’importante è che ciò che faccio sul palco sia onesto e autentico. Non posso andare “a destra” solo perché mi dicono di farlo, devo avere un motivo.
È una grande verità: non si può fingere sul palco.
Quali sono stati i tuoi primi modelli di riferimento nel canto?
Per me, ovviamente, il primo riferimento è stata Maria Callas. Poi, quando sono arrivata in Europa, ho conosciuto Mariella Devia. La prima volta che l’ho vista cantare è stato incredibile, e da allora l’ho seguita molto. Da studentessa andavo ad ascoltare tutto quello che faceva, ogni volta che ne avevo la possibilità. Anche Edita Gruberová è stata una cantante fantastica e una grande ispirazione. Ci sono tantissimi soprani di coloratura che mi hanno influenzata e ispirata nel mio percorso.
Come riesci a gestire il rapporto tra virtuosismo vocale e profondità interpretativa?
È difficile, perché basta sbilanciarsi troppo da una parte o dall’altra e il risultato non funziona. Per me, la chiave è lavorare molto tecnicamente a casa, in modo che, una volta sul palcoscenico, non debba più pensare alla tecnica. Questo mi permette di lasciarmi andare completamente nel personaggio. Tra una recita e l’altra, però, ritorno a studiare per ripulire e rimettere a fuoco quello che ho fatto in scena.
Non è sempre facile per me: ho passato vent’anni a cercare di non mettere mai una nota fuori posto, quindi lasciarmi andare, inserire qualche suono “non bello” o più sporco qui e lì, è una sfida. Da una parte è liberatorio, è come togliere i freni dopo tanto tempo, ma dall’altra parte penso sempre: “No, non dovrei farlo, devo contenermi”.
Per questo motivo non programmo spesso opere come Traviata o altri ruoli di questo tipo, perché richiedono un grande sforzo sia vocale che emotivo.
L’emozione, per un cantante, rischia di diventare invalidante a livello vocale. Come riesci a gestirla senza che interferisca con la performance?
Io piango anche in palcoscenico, davvero! Ho imparato non tanto a controllarlo, ma a conviverci. Ogni tanto capita, no? Se sei completamente dentro il personaggio, è inevitabile. Per me il momento più difficile è sempre stato in I Capuleti e i Montecchi, quando Giulietta canta Non mi lasciare. Anche quando provavo con i miei maestri, mi veniva da piangere. Piangevo e dicevo: “Non so come fare!”.
La prima volta che ho cantato quel ruolo in Francia, quando sono uscita dal palcoscenico, piangevo tantissimo. Mia sorella mi prende ancora in giro: quando eravamo giovani, avevo solo diciott’anni, le stavo spiegando la trama di Don Giovanni e arrivata al punto in cui Donna Anna scopre che suo padre sta morendo, ho iniziato a piangere come una matta. Lei mi guardava incredula, rideva e mi diceva: “Ma stai raccontando, non è successo davvero!”.
Può essere d’aiuto una buona tecnica anche in quei momenti?
Allora sì, la tecnica ti salva, ma una buona conoscenza di quanto puoi lasciarti andare è fondamentale. Per me, la difficoltà più grande è… il naso che cola! Non è proprio bello da vedere in scena. Dipende anche da quanto piangi, perché può risalire al naso o alla gola, e lì diventa un problema tecnico.
Avevo un maestro di palcoscenico che mi diceva sempre: “Nessuno se ne frega se tu lo senti. L’importante è che il pubblico lo senta. Non è per te, è per loro.” Questa frase mi ha insegnato tantissimo.
Allo stesso tempo, però, ogni tanto mi lascio andare. Perché mi piace e, giustamente, deve piacerti quello che fai, altrimenti non riesci a trasmetterlo.
Un’esperienza lavorativa che ti ha aiutata a crescere come cantante e come artista?
Una volta mi è capitato di fare due Lucia di Lammermoor contemporaneamente, una alla Scala e una ad Amsterdam. Andavo avanti e indietro tra le due produzioni, ma erano così diverse – sia per i tagli, sia per l’interpretazione musicale dei maestri, sia scenicamente – che sembrava di fare due opere completamente diverse, pur essendo la stessa. Questa esperienza mi ha dimostrato che si possono scegliere strade diverse a seconda di chi hai accanto: un tenore diverso, un baritono magari più aggressivo o, al contrario, più amichevole. Questi aspetti cambiano completamente il modo in cui vivi e interpreti il personaggio: ti senti più protettiva verso qualcuno, o magari hai paura di qualcun altro. Dipende moltissimo dai colleghi, da come recitano e da come interpretano i loro ruoli, oltre ovviamente dalla visione del regista.
Per un giovane cantante, quanto è fondamentale trovare subito il maestro giusto?
È fondamentale capire quando non è il maestro giusto e decidere di cambiare. Lo stesso vale per l’agenzia, è importante sapere che non esiste una sola persona che ha tutte le risposte. Devi raccogliere più pareri possibili e prendere solo ciò che ti serve, lasciando il resto. L’importante per i giovani cantanti è non delegare mai la responsabilità della propria voce, carriera e futuro. È unicamente loro compito proteggersi. Nessuno, neppure l’agenzia, si preoccupa di difendere il cantante. Loro si occupano solo di trovarti lavoro, ma spetta a te decidere se quel lavoro è giusto per te.
È difficile prendere decisioni che riguardano il proprio percorso, soprattutto quando ci sono legami affettivi, ma alla fine la consapevolezza che la carriera è una responsabilità personale è fondamentale. Se un legame è davvero forte, il tempo aiuterà a superare qualsiasi malinteso.
Quanto è importante per te avere accanto delle persone che comprendano realmente cosa significa fare questo mestiere? Chi non vive la stessa esperienza, a volte fa fatica a capire la natura di questo lavoro e le sue difficoltà.
È un lavoro che è difficile immaginarselo se non lo fai. Noi siamo un po’ particolari come persone, no? Ci dedichiamo a una cosa che è poco chiara, dove tutto può cambiare in un attimo. Magari hai un anno in cui c’è lavoro, l’anno dopo non c’è. Le cose vanno storte o vanno bene. E poi noi siamo molto ossessionati dal nostro lavoro. Faccio dei progetti che mi consumano tutta l’energia e il tempo.
La voce cresce con noi, con il corpo che cambia. Ma anche fra una giornata e l’altra, cambia tanto. Se sei giù, se hai litigato… c’è questa ingiustizia: che noi non possiamo litigare a voce alta!
Parlavamo prima della necessità di superare l’etichetta rigida dei ruoli vocali: pensi che debba essere una strada da percorrere per il futuro dell’opera?
Diciamo che il sistema delle registrazioni ha un po’ rovinato la lirica. Negli anni ‘50, ‘60 e ‘70 registravano poche persone, con il microfono alla bocca, e facevano uscire solo le esecuzioni eccellenti, dando al pubblico un’idea dei cantanti che non corrisponde alla realtà. Quello non è il suono che si sente in teatro, ed è diventata un’immagine limitata: il pubblico generale conosce solo la Callas o la Sutherland, non cinquanta soprani diversi. Anche visivamente, i DVD hanno imposto un’idea rigida di alcune interpretazioni. Prendiamo, ad esempio, la famosa cadenza della Lucia: dicono sempre che sia “la cadenza della Callas”, ma in realtà era di Luisa Tetrazzini e non è nemmeno scritta da Donizetti. Prima, ogni cantante portava una cadenza diversa; era tutto più individuale e interessante.
Ora, invece, con internet, YouTube, TikTok, il mondo si è aperto. Oggi quasi tutto quello che accade è online il giorno dopo, nel bene e nel male. Ma è più sano così: i giovani cantanti possono vedere che nessuno canta perfettamente tutte le note tutte le sere. Il teatro dal vivo è fatto anche di imprevedibilità, e questa è la sua bellezza. Con l’accesso immediato a diverse interpretazioni, regie, e cantanti in tutto il mondo, si può davvero aprire la mente.
Questo è importante, perché ora non siamo più limitati a quei pochi nomi imposti dalle case discografiche. E i social aiutano non solo a scoprire nuovi cantanti, ma anche ad abituarsi a interpretazioni e allestimenti diversi. È un’evoluzione che, nel complesso, fa bene all’opera.
Soprattutto considerando il grande dibattito che c’è ora su come riportare la gente a teatro. Anche se, a dirla tutta, secondo me la gente non manca davvero dai teatri. Tu cosa ne pensi?
Per fortuna ho visto che la fetta più giovane del pubblico sta crescendo, così come quella sui 50-70 anni, che ormai si è messa su Internet e riesce a vivere di più questa passione. È molto bello. Secondo me, però, i teatri devono crescere e adeguarsi: fanno ancora questa cosa di vietare le riprese, ma alla fine, a mio avviso, se una persona del pubblico fa un piccolo video senza disturbare gli altri, è solo pubblicità per il teatro, non è una cosa grave. In tutto il resto del mondo incoraggiano questa cosa, mentre i teatri continuano a dire di no, e secondo me sbagliano. Il mondo è cambiato.
Mostrare cosa accade davvero in teatro sarebbe importante, perché magari un giovane di vent’anni con tanti amici che non vanno a teatro vede quel video e si incuriosisce. Un tempo il modo di arrivare al pubblico erano Rai 5 o Rai Uno, ma adesso, con tutti i canali disponibili e tutto il contenuto su Internet, la gente non vede più queste cose. Non abbiamo più un canale diretto al pubblico generale, come quando c’erano quattro canali e, se trasmettevano l’opera, dovevi guardarla perché non c’era altro. Così, invece, diventa più organico: è un modo per attrarre persone che altrimenti non la vedrebbero.
Così viene mostrata anche più diversità, che è sempre un valore.
Da ultimo, ti vorrei chiedere: qual è un tuo sogno in questo momento? C’è un ruolo che desideri assolutamente affrontare?
In questo momento sto preparando cinque debutti! Tra questi, vorrei debuttare con Norma, perché sono troppi anni che la studio. Ora finalmente succederà a Catania, che è la patria di Vincenzo Bellini. Meglio di così non si può!