GIORGIA VALERI / PAC Lab* | In un curioso e poco noto volumetto di Michel Foucault, che raccoglie due conferenze radiofoniche tenute dal filosofo francese nel 1966, vengono esplorate le “eterotopie”, ovvero spazi che si contrappongono alle utopie perché abitano il presente. Non paesi immaginifici nati dai desideri o dalle speranze degli uomini, ma “contro-spazi”. Focault li elenca: giardini, cimiteri, manicomi, motel, prigioni. Spazi dunque che, sin dalle origini della civiltà, sono strettamente connessi agli altri ma per rinnegarli, contestarli, contrapporli, invertirli o neutralizzarli. Luoghi dove viene delegato tutto ciò che è “altro” rispetto alla normalità. Il teatro è quindi eterotopia e anzi, ogni volta può decidere quale funzione svolgere.
È perfettamente normale quindi che sul palco si aggiri un serial killer come Roberto Succo, che uccide ripetutamente di fronte a un pubblico impassibile. E non solo, che vesta anche i panni di giudice autorevole, indicando gli spettatori increduli e accusandoli apertamente: «Sono degli assassini. Mai visti tanti assassini tutti assieme. Alla minima scintilla dentro la testa, si metterebbero subito ad ammazzarsi fra di loro». E continua: «E soprattutto, mai guardarli negli occhi. Non devono neanche vederci, dobbiamo diventare trasparenti. Perché se no, se noi li guardiamo negli occhi, e loro si accorgono d’essere guardati, se anche loro ci guardano e ci vedono, subito scocca la scintilla dentro la testa e allora uccidono, uccidono, uccidono». È l’eterotopia teatrale che concede a un prigioniero di camminare libero e al pubblico di trovarsi in cattività. E quindi di invertire i ruoli.

Ph. Greta De Lazzaris

Il testo-testamento del drammaturgo francese Bernard-Marie Koltes non è una scelta fortuita, si inscrive all’interno della ricerca che Giorgina Pi e la sua compagnia Bluemotion ormai da anni conducono intorno al tragico, alle pieghe oscure dell’esistenza umana. Dai tre classici Pilade, Lemnos e Tiresias, lo sguardo di Pi si sposta su Roberto Succo, personaggio che ha attratto l’attenzione di Koltes quasi quarant’anni fa, poco prima di morire. Veneziano poco più che maggiorenne, nel 1981 Succo uccise la madre e il padre, riuscì a fuggire dal carcere e a farsi inseguire per tre nazioni, lasciando dietro di sé una scia di sangue e violenza. Fino al suicidio finale, nel carcere di Vicenza.
Ancora una volta il male diventa fatto politico: non è tanto la vicenda in sé a destare scalpore, ormai l’anestetizzazione da true crime è universale, ma semmai la natura, i motivi della violenza. Roberto Succo non ne aveva. Nessuna ragione apparente, nessun desiderio di vendetta. Solo “rendersi visibile”.
A Giorgina Pi e a Bluemotion, così come a Koltes nel 1988, una storia del genere, da cui lo spettacolo Roberto Zucco, è sembrata portatrice di una contraddizione ontologica dell’essere umano. Ed ecco il teatro della contestazione: se Zucco è il protagonista, gli antagonisti sono le persone in platea. Lo straordinario diventa normale, l’ordinario efferato.
Così le vicende del giovane veneziano, interpretato da un algido Valentino Mannias, si srotolano placide entro una coltre di nebbia fitta, che avvolge tutta la sala Fassbinder dell’Elfo Puccini. Giorgina Pi, rimanendo estremamente fedele al testo di Koltès, opera un allestimento cinematografico, sua cifra stilistica, funzionale alla resa scenica. La scenografia minimalista, la composizione delle luci, le insegne al neon, gli spot colorati restituiscono subito un’atmosfera onirica, ben inquadrata in un contesto geografico e storico: la Francia degli anni ‘80, nei suoi quartieri malfamati e purulenti.

Ph. Greta De Lazzaris

Show, don’t tell. Perché effettivamente, ad eccezione di alcune battute finali, non vengono mai sottolineati gli spostamenti di Zucco tra Italia e Francia. Quelli interni alla narrazione vengono invece ostentati: una parete perpendicolare alla platea viene fatta scorrere a vista sul palcoscenico da tecnici, ora per indicare la porta che separa Zucco dalla madre, ora la camera dei genitori di una ragazzina che si è invaghita del killer, ora la stanza a luci rosse di un bar della “piccola Chicago”. E un minuscolo faretto contribuisce a creare una coltre divisoria fra questi mondi comunicanti fra loro, impercettibile eppure fisica, materiale. Come a dire: le divisioni non esistono, chi dentro, chi fuori, siamo tutti figli della stessa matrice. Il male si promana ovunque.
I Bluemotion si muovono come un unico organismo, compatto, solido. Mannias è magnetico, imprevedibile, preciso nei gesti. Monica Demuru, madre del ragazzino ucciso da Zucco, gli fa da controspalla creando una delle scene simbolicamente più potenti all’interno di quel contesto stralunato: lui relitto della società, lei maschera vivente del perbenismo dilagante. Sono tutti vinti, il protagonista  e i mille volti che gli si rifrangono intorno. Nessuno si salva, nel testo. Nessuno viene salvato neppure da Giorgina Pi.
Cosi le guardie carcerarie (Alessandro Riceci, Andrea Argentieri), la famiglia strettamente patriarcale dell’amante di Zucco (Dimitrios Papavasilìu, Alessandro Riceci, Gaia Insenga, Alexia Sarantopoulou) le prostitute de L’Or Blue (Gaia Insenga, Aurora Peres), la madre del ragazzino (Monica Demuru) e i passanti del parco, tutti soccombono alla vita e nessuno oppone alcuna resistenza.

Ph. Greta De Lazzaris

«Io non ho nemici e non attacco nessuno. Schiaccio gli altri animali, non per cattiveria, ma perché non li ho visti e ci ho messo il piede sopra», conclude Zucco. Ancora una volta la portata politica degli spettacoli del gruppo, seppur in questo caso velatamente nascosta, emerge prepotentemente e qui per bocca di un relitto della società. Un ‘ultimo’ che si prende gioco dei primi e che ammette quanto i primi non avrebbero mai il coraggio di dire. Koltes questo lo aveva capito: aveva trovato la sua voce, negli anni ‘70, da omosessuale e affetto da AIDS, attraverso quella di personaggi scomodi, repellenti, ai margini della società, i portatori di verità. E allora Giorgina Pi lo riporta in vita, ce lo mette davanti, sguinzagliandocelo davanti agli occhi per spaventarci con il suo latrato. Ma alla fine, è lui che ha paura di noi.
Un gioco che le è ben riuscito, considerando che alla fine, quando gli attori sono tornati in scena per prendere gli applausi con una bandiera della Palestina spiegata, molti del pubblico hanno condannato il gesto: alcuni si sono alzati e se ne sono andati, uno spettatore ha persino puntato energicamente il dito con fare minaccioso contro l’attrice con la bandiera. E l’eterotopia, così, trova la sua piena realizzazione: con la vita che torna a scorrere e si riprende energicamente il proprio spazio e l’illusione teatrale che realizza l’obiettivo di controvertere l’ordine delle cose.

 

ROBERTO ZUCCO

di Bernald – Marie Koltès
traduzione di Francesco Bergamasco
adattamento, regia, scene e video Giorgina Pi
con Valentino Mannias e Andrea Argentieri, Flavia Bakiu, Monica Demuru, Gaia Insenga, Giampiero Iudica, Dimitrios Papavasilìu, Aurora Peres, Alessandro Riceci, Kevin Manuel Rubino, Alexia Sarantopoulou
costumi Sandra Cardini e Gianluca Falaschi
colonna sonora originale Valerio Vigliar
ambiente sonoro Collettivo Angelo Mai
luci Andrea Gallo
assistente alla regia Michael Ferretti
direttore di scena Salvatore Arena
attrezzista Erika Sambiase
fonico Cristiano De Fabritiis
fonico Stefano Gualtieri

Teatro Elfo Puccini, Milano | 14 novembre 2024

* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.