RENZO FRANCABANDERA | Entra in scena in controluce, una donna dall’allure di Janis Joplin, si infila una siringa nella pancia (si scopre dopo che è insulina e non eroina, ma il viaggio lisergico parte ugualmente): gli spettatori vengono catapultati con lei in una dimensione onirica in cui parto, rapporto sessuale edipico, figure mostruose e tentacolari, anticipano che la visione a cui si assisterà non sarà proprio emotivamente linearissima. Il testo originale, in realtà, parte da quando alcuni parenti entrano nella stanza per salvare la donna dal picco insulinico che si è procurata, ma effettivamente il “banale” complesso di Edipo è roba da dilettanti per I parenti terribili di Jean Cocteau (Les Parents Terribles), drammaturgia in cui il dissacrante scrittore francese esplora le dinamiche disfunzionali di una famiglia intrappolata in una rete di dipendenze emotive, manipolazioni e conflitti. L’opera sembra la rivisitazione di un vaudeville, che diventa qui scorretto e modernissimo.
Pubblicato oltre ottanta anni fa, nel 1938, è un ritratto di relazioni interpersonali intense, dove i legami familiari vengono distorti da passioni, gelosie e paure. Considerando l’anno in cui fu scritto, il testo appartiene a quella serie di scritture che, come quelle di Pirandello di vent’anni precedenti, incarnano in modo preciso le caratteristiche del dramma psicologico; sviluppa molte delle tematiche centrali della psicoanalisi, mostrando la fragilità dell’essere umano davanti alle proprie emozioni. La principale differenza fra Cocteau e Pirandello sta nel fatto che dalle parole di Cocteau trasuda, qui in particolare, una ferocissima ironia, quasi una satira che, se non è sociale, poco gli manca. Ne parliamo in riferimento all’allestimento che de I parenti terribili fa in questa stagione teatrale Filippo Dini: ne è regista e anche interprete (nel ruolo di Georges), in una co-produzione fra gli stabili del Veneto (di cui è direttore artistico), di Torino, Napoli e Bolzano.
Cruciale ne I parenti terribili è il tema del controllo materno esercitato dal personaggio chiave, Yvonne (la madre – Mariangela Granelli) ossessivamente legata al figlio Michel (Cosimo Grilli), un rapporto che si avvicina a quello di una simbiosi patologica. La madre, qui una dandy alto borghese che vive fra alcool, diabete e allucinazioni morbose, proietta su Michel le sue insicurezze e delusioni, trasformandolo nell’oggetto principale delle sue emozioni. Questa dinamica porta a un controllo soffocante, tipico delle madri possessive, che vedono nei figli un’estensione di sé. Il figlio vive dunque uno stato di infantilizzazione: è incapace di costruire relazioni autonome e mature, e sviluppa con la madre un rapporto finto-amicale, chiamandola addirittura con un nome diverso, Sophie, quasi fosse un’amica immaginaria, ma indirizzandole attenzioni sempre intonate a un sottile erotismo mal celato.
Tutto va “patologicamente” bene fin quando il giovane non si innamora di una ragazza, Madeleine (Giulia Briata): e qui i problemi diventano di colpo due. A quel punto, infatti, il suo desiderio di emancipazione entra in conflitto con la dipendenza emotiva dalla madre. Ed è qui che si apre lo spettacolo, con il figlio che dorme fuori e non torna a casa, cosa inconcepibile per la genitrice, che quasi si suicida con l’insulina.
Ma Cocteau complica la faccenda: Madeleine (la nuova fiamma di Michel) è, in realtà, anche l’amante segreta del padre del ragazzo, Georges, che la ragazza vuole lasciare, ma che dice anche di amare ancora.
Il gioco farsesco ruota quindi tutto intorno alle agnizioni incrociate, ai segreti e ai disvelamenti, intricato labirinto di giochi psicologici, a tratti davvero crudele, in cui alla dinamica madre-figlio e alla dualità fidanzata-amante, già complesse di loro, si aggiunge il muoversi sullo scacchiere di un quinto personaggio.
Ai fini del plot si tratta di una sorta di personaggio magico, la figura che nello schema delle fiabe di Propp aiuta l’eroe a vincere la battaglia e risulta perciò cruciale per la quadratura finale del cerchio: è la sorella di Yvonne, Léonie (Milvia Marigliano), personaggio che apparentemente cerca di mantenere l’equilibrio familiare, anche sacrificando sé stessa. Cocteau diceva di non capirla lui stesso, ma in fin dei conti è determinante, come vedremo, per la soluzione del caso e per il/la “lieto/a fine”.
In origine fidanzata di Georges, lo aveva lasciato come sposo alla sorella, restandone segretamente ancora innamorata. La sua figura rappresenta l’ideale della responsabilità morale, ma anche il fallimento di questa responsabilità di fronte alla famiglia profondamente disfunzionale che, a conti fatti, abdicando al suo primigenio amore, ha generato. Léonie vive in una posizione di (apparente) rinuncia e controllo, cercando di placare le tensioni, ma senza mai a lungo riuscire davvero a influenzare gli altri in modo determinante e positivo, se non appunto nel finale, dove con un raffinato gioco di carambole, riuscirà a far fuori, in un sol colpo, l’odiata sorella e a riprendersi il vecchio fidanzato, buttando il nipote fra le braccia di Madeleine e staccando lei da Georges.
La lettura che Dini fa di questo universo femminile, affida proprio a Léonie (matura e interessante la prova di Marigliano) il ruolo centrale di macchinatrice paziente e silenziosa, mantide che alla fine riesce a giocare tutte le carte a suo favore. Madeleine (bene Briata nel ruolo di ingenua maddalena penitente in cerca di redenzione) utilizza sì il suo fascino per manipolare entrambi gli uomini, in questo allestimento, ma Dini ne smorza la personalità calcolatrice e ambigua, spostando questa cifra su Lèonie.
Il gioco effettivamente è scenicamente interessante, mentre risulta invero calcato fin da subito il personaggio di Yvonne, spinta verso una caratterizzazione quasi macchiettistica, che pure la Granelli interpreta come da richiesta registica in modo impeccabile.
In generale, comunque, le donne in questa opera non sono mai rappresentate come figure materne tradizionali o amanti rassicuranti; sono, invece, agenti di conflitto e destabilizzazione, anche quando predicano l’ordine.
Georges/Dini è dapprima una figura passiva, quasi fantozziana, incapace di assumersi la responsabilità di equilibrare le dinamiche familiari. Il suo ruolo è marginalizzato e la sua relazione segreta con Madeleine lo pone in una posizione di ulteriore vulnerabilità, incarnando la fuga dalla realtà e il fallimento nel risolvere i conflitti. Rappresenta l’uomo senza qualità, che evita il confronto, rifugiandosi in una relazione clandestina come via di fuga dalle responsabilità familiari e dalla ingestibile figura di Yvonne, ma come tutte le personalità stolide si rivelerà capace di ogni crudeltà. La banalità del male o la malvagità del banale, potremmo sintetizzare. Assai bene Dini nel ruolo.
L’opera è, dunque, intrisa di dinamiche psicologiche malate, con Michel al centro di una contesa che riflette il suo conflitto interiore: da un lato il desiderio di emanciparsi dalla madre, dall’altro l’incapacità di rompere il legame emotivo con lei. Questo dualismo si riflette nella sua relazione con Madeleine, che diventa una proiezione del desiderio materno e, al tempo stesso, un tentativo di ribellione. In generale (e questo resta molto moderno di questo testo) i figli cercano comunque nei loro partner/amanti delle figure neo-genitoriali.
Iconico il ruolo della donna sola e matura, un topos del nostro tempo, spettatrice delle miserie umane, in cui alla fine cadrà anche lei per opportunismo e calcolo sentimentale. Insomma, nell’umanità dei giochi emotivi, la disumanità fa sempre capolino.
Come sempre notevole per il suo dire senza fare didascalia è la scenografia di Maria Spazzi, una delle maggiori artiste del teatro italiano contemporaneo, figura i cui segni non sono mai banali. L’architettura a sollevamento verticale che la scenografa pensa per questo allestimento, ha proprio la caratteristica di rivelare le dinamiche relazionali labirintiche fra i personaggi.
La cosa diventa evidente nella seconda scena, quella ambientata a casa di Madeleine, dove quelli che erano stati nel primo quadro i muri della casa di Yvonne e Georges, si sollevano portandosi in alto a incombere sulla vicenda e rivelando proprio questa struttura da labirinto, quasi un videogame stile Pac-Man. Nella terza scena, in cui la vicenda ritorna nella casa della famiglia, i muri tornano giù, ma non fino al livello del palcoscenico, bensì sollevati a metà, quasi a significare e ad alludere alle mezze verità che pian piano si sveleranno, raccontando il doppio fondo delle vicende umane. E Dini a un certo punto pare divertirsi davvero a fare Pac-Man ai suoi personaggi che iniziano a rincorrersi impazziti nel labirinto. Non immediata la videogaming-citazione, ma quando colta diverte. Come deve essere. E questo rivela, in fondo, tutta una serie di piani semantici che il gioco scenografico e registico portano con sé, come le piante del colore del mobilio, forme finto-viventi e oggettualizzate.
Buono il dialogo con le altre funzioni creative al servizio della scena: gli studiati costumi di Katarina Vukcevic, il bel disegno luci di Pasquale Mari, e le musiche non intrusive, ma di contrappunto pop in alcuni momenti chiave di auto-lettura dei personaggi, di Massimo Cordovani. Citiamo a proposito di queste canzoni/personaggio una per tutte, il Tornerai di Dalida, mefistofelicamente in bocca a Léonie, una dichiarazione programmatica, verrebbe da dire.
Si tratta una cover del brano portato al successo dal Trio Lescano nel 1937, ispirato alla celebre coro a bocca chiusa della Madama Battterly, poi tradotto in francese come J’attendrai, cantata da Tino Rossi del 1939, gli stessi anni del testo di Cocteau! J’attendrai sarà poi il titolo dell’album di Dalida. Un’altra meta-chicca, tipo Pac-Man, insomma. Il gruppo di lavoro ha studiato, e si vede, a voler approfondire.
L’opera analizza con spietata lucidità le fragilità umane, le dinamiche di dipendenza e le contraddizioni dei legami affettivi. Cocteau mette in scena una famiglia in cui l’amore, anziché essere fonte di conforto e crescita, diventa una trappola che lega i personaggi in un circolo vizioso di manipolazione e sofferenza. Dini ne ricava, fedelmente sotto molti aspetti, una farsa più che una tragedia, perché la morte di questa madre eccessiva e ingombrante rappresenta in fin dei conti un “lieto” fine.
“Finalmente è fuori dalle balle”, pensa lo spettatore nel suo inconscio: si finisce per sperare, come infatti succede, che nessuno arrivi in tempo per salvarla dal suo ennesimo vero/finto tentativo di suicidio. E così si ristabilisce un ordine duale dell’universo, fatto di coppie, di due, di multipli di due, e di relazioni fra coetanei. Tutto torna “normale” e rassicurante.
Tutto tragicamente borghese. Fino a nuova pulsione inconscia, finché insoddisfazione non ci separi. Ecco, quindi, che il dramma diventa farsesco, che finanche la morte arriva come evento gioioso e liberatorio.
Plaude vigorosamente il pubblico, a veder portate in scena con tanta lucida cattiveria ed efficacia le miserie che dilagano nelle vite vissute in platea, fino al sollievo per la morte del parente rompicoglioni.
Effettivamente, nella vicenda umana, anche questo succede: tutto è bene quel che finisce.
I PARENTI TERRIBILI
spettacolo accessibile per pubblico di sordi e ciechi
di Jean Cocteau
traduzione Monica Capuani
regia Filippo Dini
con Milvia Marigliano, Mariangela Granelli, Filippo Dini, Giulia Briata, Cosimo Grilli
scene Maria Spazzi
costumi Katarina Vukcevic
luci Pasquale Mari
musiche Massimo Cordovani
assistente alla regia Alma Poli
assistente scene Chiara Modolo
assistente volontario Gennaro Madonna
direttore di scena Federico Paolo Rossi
macchinista Matteo Cicogna
elettricisti Gianluca Quaglio, Nicolò Pozzerle
fonico Andrea Lambertucci
sarto Gabriele Coletti
foto e video Serena Pea
amministratrice di compagnia Federica Furlanis
produzione TSV – Teatro Nazionale, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, Teatro Stabile Bolzano
si ringrazia il Comité Jean Cocteau
Teatro Del Monaco, Treviso | 1° dicembre 2024