ILENA AMBROSIO | La splendida biografia di Thomas Mann scritta da Hermann Kurzke – tradotta in italiano da Italo Mauro e Anna Ruchat per Mondadori – reca come sottotitolo La vita come opera d’arte.
È stata questo, infatti, l’esistenza del maestoso autore tedesco: un perenne, instancabile lavorio teso a una scrittura dallo spessore filosofico e mitico che potesse sublimare l’intero suo essere nell’arte; il suo essere intero, cioè intelletto e spirito, ma anche quel “ciarpame delle origini” che erano le sue oscure e indicibili pulsioni.
Di ciò La morte a Venezia – racconto datato 1912 – è una piena rappresentazione. Gustav von Aschenbach è il tipico e topico artista manniano, teso, compresso nel suo rigore, nello stacanovismo di un lavoro che lo costringe a una vita priva di slanci passionali, di libertà; e pur, in questo, eroica: disciplina, autocontrollo e totale dedizione alla propria arte logorano la salute e affievoliscono la volontà, poiché tutto è dato per essa.
Il suo viaggio a Venezia è, allora, la risposta alla necessità di una «parentesi» vitale che doni alla sua opera «il suggello di un estro infiammato e giocoso, quell’impronta di gioia che è fonte di gioia per il mondo ammirato». Ed è una fiamma che lo accende per Tadzio, bellissimo fanciullo dai lineamenti classicheggianti, del quale, però, non comprende la lingua, instaurando così un dialogo di soli sguardi, che procede per tutto il racconto e nel quale confluiscono meditazioni sulla relazione che c’è tra artista e oggetto dell’arte e, insieme, tra arte, vita e morte.

Da questo dialogo muto e dalle sue molteplici sfaccettature di significato è stato suggestionato Liv Ferracchiati che firma la drammaturgia e la regia di La morte a Venezia. Libera interpretazione di un dialogo tra sguardi, che, dopo il debutto al Festival di Spoleto 2024, ha calcato la scena del Teatro Bellini di Napoli e sarà, dal 10 dicembre, al Gobetti di Torino.

Ph. Tommaso Le Pera

La scena che Ferracchiati abita assieme alla soave presenza di Alice Raffaelli – anche curatrice dell’aspetto coreografico della pièce – è corredata unicamente da tre pannelli dalla bicromia marinaresca, posti, uno dietro l’altro, a tre livelli di altezza; in proscenio un cesto di fragole. Tutto il resto è affidato a un particolarissimo incontro tra immagine e parola. La prima si sdoppia nella visione diretta dei corpi e in quella mediata dalla videocamera manovrata a mano, le cui riprese si riflettono sui pannelli; la seconda, analogamente, si sviluppa in due modalità: quella di Ferracchiati-Aschenbach passa dal parlato registrato della prima parte alla viva voce, nella seconda, mentre quella di Raffaelli-Tadzio resta off, come libera interpretazione dei pensieri celati nella mente del giovane.

La mente è un luogo aperto, soggetto a invasioni, incursioni subite e provocate.
Non assistiamo a una trasposizione teatrale del racconto: la trama testuale sviluppata da Ferracchiati è esattamente un luogo aperto alle invasioni e alle incursioni delle parole di Mann e dei pensieri che da quelle parole scaturiscono, in un continuo passaggio – anche a questo livello – da una dimensione all’altra, il che fa delle due presenze in scena non solo Aschenbach e Tadzio, ma anche due generici esseri umani che in quelle parole e in quei pensieri si sostanziano. La riflessione intorno alla creazione apre la strada a un dialogo con la Parola, della quale si sollecitano le potenzialità – Eddai, Parola, non fallire, lasciami trasformare questa creatura che ho qui davanti… Vedi? Vedi che la parola fallisce? Che è indicibile, a volte, il mondo –;  la vecchiezza, compagna di viaggio di Aschenbach, è qui un principio di incanutimento che chi dice ‘Io’ affronta per la prima volta – Sto invecchiando per la prima volta, sono totalmente impreparato…

Ma è soprattutto l’universo dello sguardo, della relazione visiva a inglobare la drammaturgia. Nel racconto di Mann non è solo una questione di frequenza delle descrizioni (ben tredici quelle di Tadzio): è lo stesso lessico della vista a dare forma a ogni singola pagina. Allo stesso modo e ancor più sulla scena, il senso della vista, sollecitato e amplificato, diventa veicolo e obiettivo eletto della narrazione, che assume una sfaccettatura fortemente cinematografica.

Le apparizioni di Tadzio sono osservate da Aschenbach sempre da una ben precisata angolazione – di fronte, di tre quarti, di lato, di spalle –; così le riprese del corpo, del viso, delle mutevoli espressioni di Raffaelli spostano continuamente il proprio focus, moltiplicando le possibilità di sguardo che si hanno dalla sala in un caleidoscopico fluire di immagini, che pur conserva quell’atmosfera a metà tra il sogno e l’incubo che incombe su Venezia e confonde la mente sempre più ossessionata del protagonista.
Con sgomento e meraviglia l’occhio della videocamera, fluttuando nel bel fondale sonoro realizzato da spallarossa, passa da un’inquadratura all’altra e anche dalla scena alla platea e infine dal viso di Rosselli-Tadzio a quello imbellettato alla Pierrot di Ferracchiati-Aschenbach restituendo, fotogramma dopo fotogramma, il racconto di un Io artistico che, mettendosi a nudo, scruta a fondo nel potere e nei limiti della propria creatività. Che è poi, come dire, della propria vita.

Tuttavia, questo attento scrutare si fa rischioso nel momento in cui prepara il terreno a derive di pensiero troppo concettuali che, incontrando la già complessa stratificazione dei linguaggi scenici, rischiano di sciogliere i grumi di senso fondamentali. Come a dire, insomma, che in alcuni momenti il focus dell’obiettivo andrebbe allargato piuttosto che zoomato. Si apprezza, comunque, la sincerità di un lavoro di estrema cura non solo formale ed evidente in ogni passaggio anche gestuale della rappresentazione: è una cura che caratterizza in generale l’operare di Ferracchiati e che si rivolge, sempre e palesemente, verso il proprio agire artistico e, insieme, verso chi lo accoglierà.

 

LA MORTE A VENEZIA
libera interpretazione di un dialogo tra sguardi

ispirato a La morte a Venezia di Thomas Mann
drammaturgia e regia di Liv Ferracchiati
con Liv Ferracchiati e Alice Raffaelli
movimento Alice Raffaelli
dramaturg Michele De Vita Conti
aiuto regia Anna Zanetti / Piera Mungiguerra
assistente alla drammaturgia Eliana Rotella 
scene Giuseppe Stellato
costumi Lucia Menegazzo
luci Emiliano Austeri
suono spallarossa
voce di Tadzio Weronika Młódzik
consulenza letteraria Marco Castellari

produzione Spoleto Festival dei Due MondiMARCHE TEATRO
TSU Teatro Stabile dell’Umbria
 / Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
in collaborazione con Fondazione Piccolo Teatro di Milano -Teatro d’Europa

22 novembre 2024 | Teatro Bellini, Napoli