OLINDO RAMPIN | In un bosco c’è una scala che porta verso il cielo. Non è possibile salirla, le mancano i primi pioli. Forse facendo un salto si può sperare di aggrapparsi al primo gradino e tentare di sollevarsi, ma servirebbe una forza eccezionale. Ai piedi della scala c’è un serpente. Finiremmo dunque stritolati, o avvelenati dalla sua lingua biforcuta. Per fortuna lo sguardo si perde nel verde ammaliante del bosco, dove ci immergiamo, attratti dalla profondità calmante del colore.
Il sogno che abbiamo descritto è, ci sembra, all’origine del quadro di Anselm Kiefer intitolato Ohne Titel, dipinto nel 1984 e conservato alla Collezione Maramotti di Reggio Emilia. Lo abbiamo visto pochi istanti prima di assistere, a qualche sala di distanza, alla prima assoluta di Bist du bei Mir (The Goldberg Variations, BWV 988), nuova creazione di Anne Teresa De Keersmaeker, coprodotta da Festival Aperto/ Fondazione I Teatri.
L’interpretazione del quadro di Kiefer si è fatta strada nella memoria dopo la visione della performance. Se la coreografa e danzatrice belga ha agito, a posteriori, sulla nostra interazione con l’opera, la sua “azione” aveva già disseminato di segni la grande sala d’ingresso, al punto che sarà difficile, per chi era presente, dissociare d’ora in poi l’immagine di quel luogo dalle tracce che vi ha depositato la fondatrice di Rosas.
Si sa che De Keersmaeker ama relazionarsi con alterità plurime. Quindi, non solo con gli spazi della Collezione e con l’architettura musicale di Bach eseguita dal vivo dall’ottimo Alain Franco, ma con gli spettatori e con lo stesso pianista, non senza incursioni di sottile umorismo.
La costruzione del suo “discorso” comincia in sordina, l’espressione gestuale è mantenuta dentro i confini di un controllato minimalismo. Più che confrontarsi con il testo bachiano sembra tentarne una riscrittura in forma d’abbozzo, uno scartafaccio di ipotesi per un’opera futura.
Il fatto è che De Keersmaeker appartiene alla famiglia degli artisti che elaborano organismi narrativi di lunga gittata, di cui solo alla fine si comprenderà un senso possibile. Jeans e sneakers, illuminata dai freddi neon della sala, l’artista belga rifiuta ogni sostegno semantico da luci e costumi teatrali. A tratti il volto si contrae in una smorfia di stizza, dalla bocca esce qualche parola smozzicata e pronunciata tra sé e sé, mentre si avvicina agli spettatori disposti in cerchio, in piedi. Li sfiora, li sposta per farsi strada. Conta dei numeri, sembra contrariata. Il sospetto ci sfiora, incuriosendoci.
A un certo punto il registro stilistico cambia completamente. I neon si spengono, la sala è quasi completamente buia. È uno dei passaggi più melanconici della scrittura di Bach, di una tristezza sublime, nobilissima. L’artista fende nuovamente il cerchio degli spettatori, si prostra a terra di fronte a un’opera della collezione, una scritta luminosa al neon che, nel buio che ci avvolge, le illumina freddamente il corpo. Ora si alza, si toglie le scarpe, si dirige verso una delle scale che scendono al piano inferiore, la percorre strisciando, prona, le piante dei piedi sporchi, come il pellegrino ritratto nella caravaggesca Madonna di Loreto. Un’immagine di resa, di abbandono, di smarrimento, che ha la forza di un’apparizione.
Pathos e umorismo non sono, però, universi disgiunti nella danza di De Keersmaeker, e la transizione dal dolore al riso risulta credibile, come nella vita. Di qui la beffa, quasi adolescenziale, giocata al pianista, a cui sposta il pianoforte, facendolo ruotare lungo la sala, costringendolo a suonare in piedi, camminando. Poi, nel finale, il dolore si fa strada nuovamente, con sovrumana tristezza.
Di fronte a un’acuta torsione di lucida infelicità nella scrittura bachiana, le gambe ora denudate, la schiena in procinto di esserlo, l’artista si dirige verso una parete della galleria vuota di quadri e vi compone lei stessa un’opera con il suo corpo stanco, piegato, dolente, perduto. È l’ultima stazione, esemplare, di una “vicenda” di cui solo ora ci sembra di poter comprendere il disegno, l’arco espressivo.
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L’incontro con questo percorso di elevazione morale è avvenuto con gli occhi ancora saturi della potenza seduttiva, smagliante, priva di umane imperfezioni, dei giovani danzatori del Nederlands Dans Theater 2, esecutori acclamati di Folkå e An Untold Story, due lavori firmati dai coreografi Marcos Morau e Nadav Zelner.
Gli applausi scroscianti, le urla di entusiasmo, i richiami ripetuti in scena, la frenetica eccitazione traboccante dalla platea, dai palchi e dal loggione del Teatro Valli, sempre a Reggio Emilia, erano stati in un certo senso la ricezione coerente di un organismo espressivo di rapinosa seduttività, di perfetta esecuzione. Così come il consenso convinto, ma più intimo, riflesso, interiorizzato del pubblico della Collezione Maramotti rimandava a De Keersmaeker e a Franco l’immagine-specchio di una traiettoria spirituale diversamente meditata.
Quanto l’organismo espressivo di De Keersmaeker si è messo a nudo nella sua anima poeticamente frammentaria, tanto i due lavori visti al Teatro Valli si sono presentati come composizioni di movimenti di millimetrica precisione e compiutezza, alla cui imperiosità espressiva ha conferito ulteriore attrattività l’interpretazione di un gruppo di performer tecnicamente ed esteticamente sceltissimi. Talmente prensili, ci è parso, da risultare capaci di qualsiasi metamorfosi scenica, se hanno saputo impersonare due visioni del mondo così eterogenee come Folkå e An Untold Story.
Folkå è un’accolita di probabili fedeli di un culto misteriosofico orientale, invasata da cori di pervasivo ardore mistico, caricato da poderose percussioni di tamburi. È una piccola summa danzata delle mille seduzioni di un orientalismo magico di esteriore religiosità, trionfante nell’era digitale. Incredibilmente accostati a una camiciola bianca su cui sembrano stagliarsi dei legacci sinistramente simili alle bretelle bavaresi da Oktoberfest, gli amplissimi gonnelloni blu dei performer del NDT2 si gonfiano con perfetta simmetria durante le rotazioni a imitazione dei dervisci.
Alla solenne eleganza del blu e del bianco, ai cori medievaleggianti e ai tamburi sciamanici della coreografia di Marcos Morau, risponde An Untold Story, edificio coreografico di difficile definizione assemblato dall’israeliano Nadav Zelner, coloratissima danza degli insetti prima alimentata da una musica popolare balcanica, come in una festa di allegria incontenibile, poi comicamente funestata da neon killer e dall’apparizione di un danzatore-disinfestatore, che nella sua fredda e asettica tenuta è un perfetto e involontario contravveleno all’estetismo orientaleggiante della creazione precedente.
BIST DU BEI MIR (THE GOLDBERG VARIATIONS BWV 988)
coreografia e danza Anne Teresa De Keersmaeker
musica Johann Sebastian Bach, Le variazioni Goldberg, BWV 988
pianoforte Alain Franco
collaborazione musicale Alain Franco
produzione Rosas
coproduzione Festival Aperto / Fondazione I Teatri – Reggio Emilia
in collaborazione con Collezione Maramotti e Max Mara
FOLKÅ
coreografia Marcos Morau
assistenti alla coreografia Nuria Navarra, Shay Partush
direttori delle prove Lydia Bustinduy, Ander Zabala
musica Nuova composizione e sound design di Juan Cristobal Saavedra.
Nuove composizioni: Condividiamo La Luna e Whisper, con assistenza vocale di Kim Sutherland. Il Coro Bulgaro di Londra diretto da Dessislava Stefanova: Mor’f Elenku, trad.; Izgreyala Yasna Zvezda, trad. arrangiamento da Dessislava Stefanova; Razbolyal Se E Mlad Stoyan di Kiril Todorov.
luce Tom Visser
decor Marcos Morau
costumi Silvia Delagneau
AN UNTOLD STORY
coreografia Nadav Zelner
musica Ionica Minune: Barbu Lǎutaru, Electrecord. Henry Ernst (aka Adrian Sical) / Fanfare Ciocarlia: Doina Si cintec, Balaseanca De 8 Or, Piranha. Taraf de Haïdouks: Dumbala Dumba, Rustem, Cintece De Jale, Crammed Discs. Taraful Ciuleandra: Hora Staccatto / Ciocarlia, ARC Music Productions Int. Ltd. Robert Schumann, Daniel Barenboim: Kinderszenen Op.15:7. Traumerei, Deutsche Grammophon GmbH, Berlin.
disegno luci Avi-Yona Bueno (Bambi)
decor Eran Atzmon
costumi Maor Zabar
editor del suono Matan Onyameh
Festival Aperto, Reggio Emilia | 24 novembre 2024