RENZO FRANCABANDERA | La digitalità ha progressivamente trasformato le arti performative, i cui confini si stanno estendendo verso ambienti digitali, spazi virtuali e interattività, dando vita a nuove estetiche e linguaggi. In questo panorama, è assai cresciuto di importanza in Italia il progetto Residenze Digitali, che nasce da un’idea del Centro di Residenza della Toscana (Armunia – CapoTrave/Kilowatt), in partenariato con l’Associazione Marchigiana Attività Teatrali AMAT, il Centro di Residenza Emilia-Romagna (L’arboreto – Teatro Dimora │ La Corte Ospitale), l’Associazione ZONA K di Milano, Fondazione Piemonte dal Vivo – Lavanderia a Vapore, C.U.R.A. – Centro Umbro Residenze Artistiche, a cui si sono aggiunte quest’anno due nuove realtà: il Centro di produzione di danza e arti performative Fuorimargine, in Sardegna, e l’Associazione Quarantasettezeroquattro(In\Visible Cities – Festival urbano multimediale) di Gorizia.
È diventato uno dei laboratori più definiti per forme e contenuti per la sperimentazione artistica digitale, incentivando la creazione di opere che trovano nello spazio virtuale la loro dimensione ideale. L’edizione di quest’anno, che ha completato in questi giorni le restituzioni, ha selezionato quattro progetti che riceveranno un supporto economico e tecnico per sviluppare opere native digitali.

Si tratta di concepire creazioni che sfruttino pienamente le potenzialità del digitale, prevedendo modalità di fruizione interattiva e una possibile integrazione con spazi fisici.
Il processo produttivo include anche tutor e partner tecnici, a testimonianza dell’importanza di competenze interdisciplinari nella realizzazione. Il ruolo dei tecnici nella performance digitale è fondamentale: fungono da ponte tra la visione artistica e la sua realizzazione pratica in un ambiente tecnologicamente complesso. Gli esperti di ambienti digitali non si limitano a operare strumenti, ma collaborano creativamente alla concezione e allo sviluppo dell’opera stessa. Si pensi agli sviluppatori di app e piattaforme che permettono l’interazione tra performer e pubblico o tra performer e tecnologia.
Programmano algoritmi e creano interfacce che permettono un’esperienza fluida e coinvolgente o scrivono codici per gestire effetti visivi, suoni generativi o ambienti virtuali.
In progetti come questi, il tecnico diventa co-creatore, contribuendo con soluzioni innovative a realizzare la visione artistica e a immergere lo spettatore nell’esperienza: soundscape interattivi e sistemi di illuminazione dinamici sincronizzati con l’azione performativa o con input provenienti dal pubblico diventano quindi elementi cruciali e, vedremo, anche determinanti ai fini della resa finale.
C’è bisogno anche che l’infrastruttura tecnologica funzioni senza interruzioni, e che sia presidiata la compatibilità dei dispositivi. Il successo di Residenze Digitali risiede quindi nella capacità di incoraggiare un dialogo profondo tra tecnologia e creatività artistica.
Resta ovviamente sempre vivo il rischio, insito in questo genere di esperienze technologically driven, di privilegiare l’aspetto tecnologico rispetto alla narrazione o alla performance, mentre in una prospettiva di equilibri del linguaggio e dell’esperienza fruitiva è fondamentale mantenere un equilibrio, assicurando che il contenuto artistico non venga sacrificato all’estetica digitale.

Ambito utile per un approfondimento su questi temi è stato, ad esempio, il progetto Metabolo II: Orinthya, una performance ideata da Valerie Tameu che combina elementi di danza, intelligenza artificiale e narrazione cyber-magica, presentato sia in modalità di fruizione digitale, che in presenza presso la Corte Ospitale, sede da cui è stato irradiato lo streaming. L’opera si ispira alla figura mitologica della Mami Wata, una divinità acquatica mutaforma della tradizione africana, reinterpretata in chiave digitale e contemporanea. La performance esplora la collaborazione tra il movimento umano, un biota acquatico e un software di intelligenza artificiale e ambisce a mette in dialogo natura, tecnologia e spiritualità, enfatizzando, nell’idea delle funzioni artistiche coinvolte, i temi di connessione con gli elementi naturali e l’acqua, in particolare, con le questioni dell’equilibrio interiore e della sostenibilità ambientale. Una grande sfida, antropologicamente e filosoficamente ambiziosa.
Allo spettatore vengono date specifiche indicazioni già al momento dell’acquisto biglietto. Per partecipare, infatti, deve accedere inizialmente a un foyer digitale, raggiungibile tramite un link fornito dagli organizzatori. In questo spazio virtuale, concepito come un ambiente esplorativo e interattivo (una sorta di stanza con oggetti virtuali da esplorare selezionandoli), sono presenti diversi contenuti audio e video che spiegano il razionale e le ricerche alla base della performance, tutti legati alla cultura dell’identità migrante e delle radici originarie della cultura afro. Uno di questi oggetti permette di accedere alla diretta streaming su Twitch. Il foyer viene aperto un quarto d’ora prima dell’inizio della performance vera e propria, offrendo ai partecipanti il tempo necessario per esplorarlo prima di lasciare lo spazio per connettersi alla performance in streaming. L’ambiente è interessante ma l’ergonomia della visione da cellulare non è perfetta. Il device ideale di destinazione sarebbe il tablet. Impensabile andare in giro per la propria stanza con il pc per inquadrare questo o quello. Nel foyer comunque si spiegano le intenzioni e le fonti di ispirazioni, fra afrofuturismo e cultura techno-digitale, ma anche studi socio-antropologici legati alla ritualità dell’acqua.
L’evento per tutte le persone collegate richiede l’utilizzo di un PC o di un dispositivo mobile di qualità per garantire una fruizione ottimale, un account Twitch gratuito facilmente attivabile e una connessione internet stabile. Fondamentale è mantenere l’audio sempre attivo, preferibilmente utilizzando cuffie o auricolari, per garantire l’immersione nell’esperienza. Per eventuali difficoltà tecniche, gli spettatori possono contattare gli organizzatori tramite un numero WhatsApp dedicato. Il creative technologist del progetto è Michele Cremaschi.
La partecipazione richiede materiali di portata simbolica: un ingrediente da bruciare a scelta tra salvia bianca essiccata, rosmarino essiccato o un bastoncino d’incenso, oltre a un accendino o fiammiferi, un bicchiere d’acqua trasparente, del sale, un foglietto e una penna. La dotazione richiesta è un po’ buffa ma sono nell’intenzione artistica elementi pensati per creare un collegamento fisico ed emotivo tra il pubblico e l’azione performativa, favorendo una dimensione rituale collettiva che unisca il digitale al mondo tangibile. Tameu propone, di fatto, una meditazione collettiva, la partecipazione a un rito fondato sull’elemento naturale; l’intenzione è rendere l’esperienza coinvolgente e immersiva, enfatizzando l’interazione tra la dimensione virtuale e quella personale dello spettatore. Salvia e rosmarino, acqua e sale gli ingredienti per l’immersione, sebbene da casa si resti un po’ dubitativi. Personalmente ho optato per il rosmarino mettendolo in un pestello per non fare caos. Qualcuno che si era affidato alla salvia, nella chat chiede un po’ di pazienza perché stava mandando a fuoco il tappeto. Bruciare le essenze per rilassarsi e abbandonarsi all’io profondo e raccontare in chat in contemporanea, non paiono azioni effettivamente compatibili. L’esperienza rituale collettiva, che coinvolge sia le persone in presenza presso Corte Ospitale che quelle collegate, chiamate a interagire con la performer, il cui contorno fisico per chi si collega da remoto è smarginato per isolarlo dall’ambiente fisico circostante e proiettarlo in una dimensione spirituale, è aumentata dalle creazioni sonore, di ispirazione new age, e legate ai suoni dell’acqua (Michele Mandrelli).

Chi si collega interagisce tramite una chat che viene poi letta dalla performer collegata via cam e con la postazione del computer. Obiettivamente qualcosa funziona e qualcosa funziona meno.
Viene proposto di bruciare l’essenza, di muovere e “sentire” l’acqua nel bicchiere, il movimento, la consistenza dell’elemento, di ricordarne le caratteristiche con le parole, che vengono poi lette a voce in diretta dalla performer collegata.
Anche qui, certo, la distanza fra le abluzioni nelle acque del Gange o nei laghi salati delle Ande e due-tre dita in un bicchiere di acqua e sale purtroppo resta… insomma l’immersione sensoriale è assai parziale, come si può immaginare.
Non abbiamo realmente lo spazio emotivo da casa di collegarci alla Mami Wata e di sentire la connessione alla divinità acquatica. Si viene spostati tramite link su un’altra piattaforma digitale, dove parte una traccia sonora (anche se questo passaggio audio/video e il successivo ritorno nell’ambiente di partenza non sono proprio fluidi per chi è in collegamento) in abbinamento con una coreografia animata digitalizzata.
Il rito, inteso come una sequenza di azioni codificate che trasmette significati culturali e spirituali e, per come lo abbiamo conosciuto nei millenni, si trasforma profondamente quando viene trasposto in un ambiente virtuale digitale. Il teatro, in quanto spazio tradizionale per la ritualità performativa, è sicuramente un medium adatto a esplorare queste dinamiche trasformative. L’ambiente digitale consente infatti la partecipazione senza confini geografici. Questo apre le porte a una condivisione interculturale unica e uniforme. L’uso di intelligenza artificiale, realtà virtuale e realtà aumentata si propone di far agire i partecipanti, se non come co-creatori dell’esperienza, come partecipanti attivi, contribuendo al rituale. I linguaggi digitali consentono poi di espandere le possibilità estetiche del rito, attraverso effetti visivi complessi e ambientazioni immersive, ma ai fini della compattezza dell’evento risulta assai macchinoso dover entrare e uscire, anche solo tramite link, da un ambiente virtuale a un altro. Per non parlare dell’entrare e uscire dal proprio io profondo per spostarsi da Twitch a Styly. Così si interrompe il fluire di sensazioni organicamente sinestesiche, già di loro complesse, perché non coinvolgenti davvero in simultanea e non senza artificiosità.

I collegamenti da computer, ciascuno da casa propria, permettono a tutti di annusare la propria salvia e il proprio rosmarino bruciati, ma è improprio parlare di esperienza collettiva: è e resta una sommatoria di esperienze individuali, aggregate da una narrazione unificante che, in taluni momenti, fatica a comporre un vero sentimento rituale.
È giusto però provare, anche per studiare e capire i limiti del medium e affinare e specializzare l’integrazione sui canali e con le forme su cui il ritorno resta più efficace e convincente. Ma è giusto anche capire cosa poi arriva e cosa no.
È innegabile che l’ambiente virtuale riduca già di suo l’intensità emotiva del rito collettivo, rendendolo un’esperienza più mentale che fisica, e non permettendo un reale abbandono, dovendo continuare a “badare” alla macchina, alla chat, a quello che dicono gli altri, a leggere. La presenza di distrazioni digitali e la mancanza di un senso tangibile di sacralità  attenuano in maniera sostanziale l’effetto trasformativo del rito. La virtualità rischia di sembrare artificiale e lontana dalla sacralità intrinseca nei riti tradizionali, specialmente per culture in cui la ritualità è strettamente legata alla terra, agli elementi naturali o agli spazi sacri.
Il canale virtuale offre straordinarie opportunità per reinventare il rito, ma necessita di un equilibrio tra innovazione tecnologica e preservazione dell’autenticità, affinché l’esperienza rimanga significativa e trasformativa. 

 

METABOLO II: ORYNTHIA

di Valerie Tameu
creative technologist Michele Cremaschi 
sound design Michele Mandrelli
produzione Residenze Digitali
coproduzione Sineglossa