GIANNA VALENTI | Susan Leigh Foster — tra i fondatori dei Dance Studies, che con i suoi libri ha cambiato il modo in cui guardiamo, studiamo, pensiamo e scriviamo di danza (e non solo a livello accademico), che ha nutrito generazioni di coreografi, offrendo loro visioni storiche e modelli di pensiero critico per definire e sviluppare le loro pratiche — condivide qui con noi il suo processo di costruzione coreografica, scegliendo una narrazione personale che si fa, al tempo stesso, testo critico.
Foster — danzatrice, coreografa, studiosa all’Università della California Los Angeles, scrittrice di fama internazionale, fondatrice del primo programma di dottorato in Dance Studies negli Stati Uniti, primo Professore invitato a tenere una Lectio Magistralis sulla Danza nella secolare storia del Senato Accademico dell’Università della California, membro onorario del Laban Center di Londra e recentemente insignita di un Dottorato Onorario dall’Università di Stoccolma — ha risposto al mio invito riempiendo la sua Capsula del Tempo con una narrazione che è un esempio del ruolo della parola nel conservare la memoria di un processo creativo e di un’azione coreografica. Un testo, a tratti personale e vulnerabile, che offre non solo una visione storica e critica sulla danza, ma anche un’opportunità pratica e teorica per il nostro fare contemporaneo, poiché la comprensione di un processo coreografico ha il potere di trasformarsi in un dialogo artistico per la definizione di pratiche coreografiche nel nostro presente.
Con profonda gratitudine condivido con voi le sue parole:
All’inizio di quasi ogni prova in cui sono da sola, mi accovaccio con la testa tra le mani, appoggiata contro il muro, fissando lo spazio, il corpo attraversato dall’ansia. Rimango immobile in questo modo, tesa e in panico, per molti minuti. Alla fine, qualche tipo di indicazione arriva alla superficie, non un’ispirazione, ma una ragione per lo meno praticabile per alzarmi e muovermi nello spazio. Mentre improvviso una frase di movimento, mi infastidisco immediatamente per quanto sia difficile ripeterla e per quanto appaia morta nella ripetizione. A volte ritorno al muro ad accovacciarmi. Altre volte mi costringo a restare in piedi e a riprovare diversamente.
Cosa succede dopo? Lentamente, e per lo più senza rendermene conto, mi immergo in un processo di pensieri, dal prossimo al successivo. L’inizio di una frase ha del potenziale e i movimenti cominciano a trovare un loro posto. Alcuni dilemmi vengono risolti, almeno temporaneamente, e altri vengono ignorati. Le indicazioni si susseguono, trasformandosi in sequenze; una linea guida inizia a emergere. Posso fermarmi e rifletterci e arrivare a sapere quale strada prendere. Quando questo processo è al suo meglio, la danza mi dice come procedere per costruirla. Sì. La danza assume una propria esistenza e imprime su di me il suo futuro. Ed è piacevole. «Perché no» – mi dico. «Buona idea». La danza svolta o cambia direzione, ma sa dove sta andando. E poi se ne va. Prendo alcuni appunti e lascio lo studio per la giornata.
Quasi sempre ritorna, a un certo punto, quando entro nello studio il giorno successivo. Le idee sulla danza che ho quando non sto provando sono di solito le mie, e le porto con me in sala prove, ma la danza ha sempre un’opinione. Non solo, è la danza a rivelare sempre il finale. Eccolo lì, proprio davanti ai miei occhi.
Per essere chiari, in questo processo della danza che fa sé stessa, io non sono un tramite o un veicolo, ma piuttosto una collaboratrice. Io e la danza agiamo come partner nella sua produzione. Ma è anche una collaborazione senza ego in cui non c’è nessuna sensazione di divisione tra la volontà e l’azione. I grammatici hanno identificato questo stato come quello della voce mediale, in cui non c’è né soggetto, né oggetto. Un buon esempio di voce mediale può essere trovato nell’affermazione «Succede!».
Per alcune coreografie ciò che è necessario è una sequenza di parametri che strutturano l’azione al cui interno le risposte di movimento rimangono parzialmente improvvisate. Per altre, i passaggi si accumulano conteggio dopo conteggio, costruendo frasi di movimento che possono essere ripetute, corrette, e perfezionate. Ogni danza richiede qualcosa di diverso, e spesso, alcune diverse combinazioni di materiale improvvisato e fissato, ma il processo della danza che fa sé stessa rimane lo stesso.
Ho esperienza di questa stessa sensazione di collaborazione con la danza anche durante una performance, quando sto improvvisando la coreografia. «Cosa vuole la danza? Di che cosa ha bisogno?» – chiedo. E lei risponde. Il tempo si dilata oltre la metrica che gli attribuiamo. Diventa possibile accedere a ciò che è passato ed essere contemporaneamente nel presente. Piuttosto che una linea, il tempo diventa un volume in cui ci si può muovere in ogni direzione. Sto danzando con e in contrasto a ciò che ho fatto precedentemente nella danza. Alcune persone vogliono preservare per l’improvvisazione la possibilità di essere immersi soltanto nel momento, solo nel presente. Io preferisco localizzare il presente all’interno di una continuità, che lo connette a tutto ciò che è venuto prima e a tutto ciò che potrebbe seguire.
Gli psicologi, tra cui Mihaly Csikszentmihalyi, hanno identificato questo stato come uno di speciale immersione nell’atto di compiere qualsiasi cosa – come scalare una parete di roccia, correre in una gara, giocare a scacchi o a basket. Chiamandolo flow state / stato di flusso, Csikszentmihalyi sostiene che pone l’attenzione sull’integrazione di azione e attenzione, in un modo non ordinario e di completa concentrazione per la fusione di intenzione e risultato. Sebbene questa integrazione tra persona e azione venga spesso riferita come una perdita del sé, come osserva Csikszentmihalyi, ciò che si perde nel flusso non è la consapevolezza di sé, che infatti spesso aumenta, ma invece «la costruzione del sé» che «impariamo a interporre tra lo stimolo e la risposta».* Così, gli scalatori riferiscono di un forte aumento della consapevolezza delle loro sensazioni cinestetiche, proprio come i giocatori di scacchi della loro capacità di seguire il modo in cui le loro menti affrontano il gioco.
Per quanto molto di tutto questo assomigli a ciò di cui faccio esperienza quando creo (con) la danza, c’è una differenza che potrebbe essere solo quantitativa, ma che potrebbe essere anche qualitativa. La danza ha la capacità di fare qualcosa di veramente imprevedibile e completamente al di fuori di qualsiasi idea io abbia di lei. Quei movimenti “pazzi, ma proprio giusti” sarebbero possibili nell’arrampicata su roccia o negli scacchi, oppure queste attività sono più circoscritte in termini di opzioni disponibili? Non conosco la risposta a questa domanda, ma potrebbe chiarire qualcosa sulla particolarità del fare arte… oppure no.
Quando sono in prova con un gruppo di danzatori, il processo è completamente diverso. Entro nella stanza con passo deciso, con l’intenzione di apparire sicura. Arrivo piena di idee, molte più di quante avremo il tempo di esplorare nelle due o tre ore di lavoro. Queste proposte esplorative sono annotate su pagine che consulto occasionalmente nel corso delle prove, in modo da essere certa di non dimenticarmi di qualche pezzo cruciale, di ciò che immagino possa essere necessario alla fase successiva dello sviluppo della danza. Ho tracciato una traiettoria per il pezzo, e lo scopo della prova è di guidare i danzatori lungo quel percorso.
Naturalmente, ci sono delle deviazioni; i danzatori scoprono una ricca vena di materiale di movimento che merita un’esplorazione approfondita; i danzatori si grattano la testa nella completa incapacità di capire quello che sto chiedendo; i risultati di ciò che viene sviluppato segnalano che il pezzo non riguarda ciò che avevo pianificato.
Torno a casa e disegno i percorsi degli spostamenti spaziali delle scene sviluppate fino a quel momento. I danzatori si muovono ripetutamente sulla stessa diagonale? Ogni scena dura lo stesso tempo? Le scene si sviluppano tutte allo stesso ritmo? Metti tutto a posto la prossima settimana!
I disegni delle traiettorie spaziali dei danzatori mi aiutano a rivedere la danza quando sono a casa, seduta sul pavimento, mentre penso a cosa segue cosa. Ho in mente un argomento, o meglio, una tesi che la danza deve sviluppare, e la domanda diventa come sviluppare al meglio quel tema, in modo che gli spettatori possano seguirlo e assimilarlo. Non sono interessata a mostrare semplicemente un processo che crea azioni, ma piuttosto a comunicare un mondo ipotetico in cui le persone si muovono e si relazionano tra loro in modi specifici. Per questo motivo ho sempre creduto che coreografare è teorizzare. Il processo esplora una serie di “cosa succederebbe se” e poi fornisce agli spettatori risposte provvisorie a quelle domande. Ovviamente, ciò che gli spettatori vedono e come lo interpretano è un campo aperto di possibilità. Ma cerco, nel corso della costruzione della danza, di stabilire le sue proposizioni nel modo più chiaro possibile. Forse, la prova di ciò è il numero di spettatori che arrivano a un’interpretazione della danza simile alle mie intenzioni.
Non è semplice, e spesso non è una buona idea, mettere sé stessi nella danza. È impossibile vedere la danza come la vedono gli spettatori quando ci si danza dentro. Ma spesso è una necessità economica – una danzatrice in meno da pagare. Così, quando sto lavorando a un pezzo, identifico le sezioni in cui apparirò, ma raramente riesco a provare insieme ai danzatori sino a quando lo spettacolo non sta per debuttare. A quel punto, devo cambiare radicalmente marcia e imparare la danza in un modo completamente nuovo – dal suo interno. Questo significa prestare attenzione a chi mi è vicino e quando, mantenere chiare le formazioni spaziali, imparare il ritmo e le sue richieste aerobiche, e proiettare la mia attenzione nello spazio. Nonostante queste abilità così diverse, parte della sensazione della danza che mi sta danzando rimane. La danza si compiace nel mostrarsi a un pubblico, ma è uno sforzo di gruppo in cui mi sento altrettanto connessa agli altri danzatori quanto lo sono alla danza stessa.
Gli altri danzatori stanno anche loro danzando con la danza? La danza li sta danzando nello stesso modo in cui sta danzando me? Non lo so. Probabilmente le cose cambiano a ogni esecuzione. Ho cercato di trasmettere loro quello che intendo (quello che la danza spera di dire). Ma forse loro (e io?) siamo più immersi nell’estasi del nostro movimento di gruppo. Il qui e ora e le azioni successive prendono il sopravvento sull’attenzione.
Un’altra cosa succede verso la fine delle prove — mi viene un’idea per una nuova danza. Proprio quando sta per finire di fare sé stessa, la danza presenta una nuova idea per una nuova iterazione di sé. La danza è molto astuta nel mantenersi in azione e, allo stesso tempo, è premurosa nei miei confronti, così da non farmi sentire abbandonata o priva di ispirazione.
Per tutto il tempo in cui la danza e io la stiamo creando, sono completamente invischiata in compiti paralleli, la cui realizzazione è vitale per il progetto: organizzare lo spazio per le prove e ritirare la chiave; affittare uno spazio dove potersi esibire; viaggiare in treno fino a New York City e poi a Hoboken, dove ho affittato una stanza in modo da poter provare due o tre volte durante un lungo weekend, il tutto mentre correggo compiti e preparo corsi; trovare e lavorare con un compositore, un lighting designer, e, infine, un direttore di scena; progettare e stampare cartoline e manifesti; scrivere comunicati stampa; programmare un fotografo che faccia le foto della danza; fare o trovare costumi e ideare oggetti di scena; progettare, scrivere e stampare il programma; guardare in giro quello che stanno facendo gli altri coreografi e confrontarmi con loro. Chi può dire che tutto questo non faccia parte della coreografia? Non io.
La coreografia continua a svilupparsi: trasferirsi nello spazio della performance per le prove tecniche e la prova generale, lavorare con tutte queste altre persone che hanno un’idea così parziale di ciò di cui tratta, ma che possono essere portate a capire e a prendere le decisioni giuste in base alla loro conoscenza tecnica di illuminazione e suono. Devono montare e puntare le luci; montare gli altoparlanti e collegarli a qualunque sia la musica che viene prodotta. Qualcuno, di solito io, deve preparare le sedie e spazzare il pavimento. E quando proviamo il pezzo montato, sono in scena a danzare, ma devo uscire ripetutamente per vedere come appare e come si sente.
E poi, dopo tre sere di performance, tutto deve essere smontato. Le attrezzature restituite, le sedie riposte, i costumi raccolti e lavati, gli oggetti di scena portati a casa, gli appunti e i disegni della danza archiviati insieme alle foto, ai materiali pubblicitari e al programma.
Forse, mi prendo qualche settimana di pausa, ma la danza mi ha lasciata con un’idea, quindi sono ansiosa di cominciare a esplorarla. Torno al muro nello studio, accasciata, confusa… ma lentamente qualcosa emerge.
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Intendiamoci, ciò che ho scritto sul processo di fare una danza è molto discutibile. Sono passati molti anni da quando facevo danze regolarmente. Sicuramente ricordo la posizione accasciata contro il muro (e ricordo di sorridere ironicamente a quanto fosse necessaria). Ho ancora i disegni degli spostamenti spaziali, quindi so di averli fatti. Conosco molto bene la sensazione di collaborare con la danza e le fantastiche sorprese che mi dava. Ma questa narrazione che ho dato fa sembrare il processo così chiaro e definito, quando sono abbastanza sicura che non lo fosse.
Inoltre, ciò che ho scritto descrive un periodo di nove anni in cui, mentre insegnavo alla Wesleyan University, mi autoproducevo a New York e facevo performance a livello regionale. In base alle mie dichiarazioni fiscali, spendevo metà del mio stipendio annuale di 34.000 dollari per queste produzioni, mentre ricevevo un riconoscimento modesto sotto forma di recensioni sul «New York Times» e sul «Village Voice» e due piccoli finanziamenti dal National Endowment for the Arts. Questo è stato anche un periodo (la metà degli anni ’80) in cui l’intero sistema che presentava la danza sperimentale stava subendo una ristrutturazione, principalmente attraverso l’introduzione di direttori artistici-curatori che assumevano il controllo degli spazi, che in precedenza erano stati gestiti dai collettivi di artisti. Questi direttori si appropriavano del ruolo potente di determinare chi e quali tipi di lavoro sarebbero stati prodotti. Amavano anche dare consigli agli artisti che producevano. Ricordo di aver cercato di nascondere il mio disprezzo (sicuramente senza successo), mentre ascoltavo le loro riflessioni e i loro suggerimenti. Il Cunningham Studio (dove mi autopresentavo) rimaneva l’ultimo spazio ben conosciuto in città che poteva essere affittato secondo il principio del primo che arriva si serve. Poteva ospitare cento persone.
Sono queste condizioni infrastrutturali e istituzionali rilevanti per il processo creativo del fare danza? Domanda interessante. Sono certa, almeno, che queste condizioni hanno inquadrato le condizioni di possibilità di ciò che pensavo di poter creare, così come i molti spettacoli a cui ho assistito e le conversazioni che ho avuto con altri artisti.
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In molti modi, costruire una danza non è poi così diverso dallo scrivere questo testo. Inizio fissando una pagina vuota proprio come fisso la stanza vuota. Ogni giorno si fa qualche piccola cosa; un po’ di editing e di riscrittura; qualche passo indietro per distanziarsi e guardare l’insieme, per poi riavvicinarsi concentrandosi su una frase. Le parole (come i movimenti) sono scelte, le frasi prendono consistenza, e le sezioni si formano. Alla fine, gli argomenti si sviluppano, in un modo o nell’altro. La grande differenza è che con la scrittura c’è un testo a cui ritornare il giorno successivo, un testo che ti guarda dalla pagina o dallo schermo, mentre con la danza devi ricordarti tutto e ricrearla ogni giorno. E poi, la differenza più grande alla fine: hai un testo che non è permanente, ma è più permanente della danza.
Il video, entrato nelle arti performative solo nei primi anni ’70, era diventato uno strumento molto importante per i coreografi negli anni ’80. Rendendo disponibile una modalità potente e relativamente economica per documentare una danza, veniva anche usato sempre di più per registrare le prove, facendo sì che i coreografi avessero un altro modo, oltre alla loro immaginazione, per rivedere la danza. Non ho mai fatto uso del video durante le prove, ma sono felice di avere le registrazioni degli spettacoli.
Quali sono le differenze tra rivedere una danza nella propria immaginazione e sul video, e c’è una differenza con il leggere ciò che si è scritto su una pagina? Il video è già una traduzione da un medium all’altro, e ogni coreografo sa che offre una visione incompleta della danza, specialmente per quanto riguarda i tipi di coinvolgimento energetico di cui il danzatore e lo spettatore hanno fatto esperienza. Non può trasmettere la muscolarità della danza, benché possa aiutare il coreografo a ricordare ciò che è stato realizzato. Ma sia che io stia guardando un video o ricordando la danza nella mia immaginazione, si tratta di un atto creativo e interpretativo nuovo. È la danza in questo momento.
Non è lo stesso per un testo? Non viene creato nuovamente a ogni lettura? Nuove relazioni appaiono; emerge un senso diverso del ritmo delle parole; una nuova idea adiacente suggerisce sé stessa nel mezzo di una frase. Arriva un momento in cui hai detto tutto ciò che c’era da dire.
Come ho fatto qui.
Susan Leigh Foster
*Csikszentmihalyi, Mihaly. “A Theoretical Model for Enjoyment.” In The Improvisation Studies Reader: Spontaneous Acts. Edited by Rebecca Caines and Ajay Heble, 150–162. London: Routledge, 2014. p. 36
Crediti
Autore Susan Leigh Foster
Traduzione Gianna Valenti
PAC-Paneacquaculture.net
English Text
Susan Leigh Foster, dancing with the dance
Il collegamento multimediale a questo testo, “Fare Corrografia #5: Susan Leigh Foster, dancing with the dance” può essere condiviso senza restrizioni. Tuttavia, ai sensi della Convenzione di Berna sui diritti di proprietà intellettuale (diritto d’autore), il presente testo può essere citato, secondo un uso corretto e nella misura necessaria per raggiungere lo scopo desiderato, ma non può essere copiato o riutilizzato senza la previa autorizzazione dell’autore sia nelle pubblicazioni digitali che stampate.
Alcuni riferimenti online del lavoro di Susan Foster:
Blurred Genres, opening solo — 9’.53’’
Susan Foster dancing in the opening solo of her piece Blurred Genres that was premiered at the Cunningham Studio in New York City in 1986:
UCLA, 129th Faculty Research Lecture – March 23rd, 2021
Susan Leigh Foster, Distinguished Professor, World Arts Cultures and Dance:
What Dancing Does 38’.12’’
0.’ introduction by the Academic Senate Chair
1.’27’’ introduction by Emily Carter
4’.58’’ Susan Foster – introduction
7’.10’’ Four Perspectives on What Dancing Does
7’.44’’ Dancing as Thinking
15’.11’’ Dancing as Signifying
23’.04’’ Dancing as Coercion and as Survival
28’.53’’ Dancing as a Form of Exchanging
35’.43’’ Susan Foster – conclusion
Works in Progress
Podcast of the UCLA School of the Arts & Architecture – April 2021
Susan Leigh Foster: How dance functions in our lives 23’.58’’
Performance Research 25.6/7 : pp.186-189 – 2021
Susan Leigh Foster: Guts ’n’ Brains, building relationality in dancing
Three Performed Lectures – March 2011
Choreographies of Writing