RENZO FRANCABANDERA | C’è una caratteristica che ci appare assai evidente della poetica di Gabriella Salvaterra, artista da sempre organica all’esperienza del teatro sensoriale, ed è la costante presenza di una geografia molto nitida e frequente delle sue installazioni performative negli spazi chiusi, fatta di luoghi e immagini che tendono a ritornare.
E mentre eravamo immersi nel buio de La ultima vez (Cena clandestina) ospitata all’interno della rassegna Misma Onda presso l’Oratorio San Filippo Neri a Bologna, riflettevamo su come l’artista riuscisse a essere sempre uguale e sempre diversa. Performer, artista e regista di origine italo-brasiliana, Salvaterra ha affermato negli anni il suo percorso esplorando i confini tra performance teatrale e installazione, creando esperienze immersive che marcano la differenza rispetto alle convenzioni fruitive del teatro tradizionale.
Come noto, il suo percorso artistico è profondamente legato al Teatro de los Sentidos, una compagnia fondata da Enrique Vargas che si è concentrata, nel suo evolvere creativo, sull’esplorazione dei sensi e sull’immersione esperienziale come strumento teatrale. All’interno di questa realtà, Salvaterra ha affinato per anni una pratica che combina la ricerca antropologica e rituale con una drammaturgia non lineare, basata sull’interazione sensoriale con il pubblico. Questo approccio consente agli spettatori di vivere il teatro in modo intimo e personale, trasformando le performance in un dialogo tra esperienza individuale e collettiva.
Per il Teatro de los Sentidos, Salvaterra ha svolto ruoli cruciali sia come attrice che come creatrice di esperienze. Questo le ha permesso di sviluppare una sensibilità particolarissima verso l’importanza del rituale e della memoria, che rimangono centrali anche oggi nel suo percorso artistico. Dopo aver lasciato la compagnia, infatti, Salvaterra ha intrapreso un progetto indipendente, mantenendo vivo l’approccio sensoriale ma esplorando nuovi territori espressivi, tra cui le performance partecipative e i progetti installativi.
La ultima vez (Cena clandestina) unisce l’intimità di una cena rituale con una narrazione teatrale stratificata. In questo lavoro Salvaterra ripropone in modo accessibile e accogliente il suo stile distintivo, in cui oggetti quotidiani e ricordi personali si trasformano in elementi simbolici, creando un dialogo tra passato e presente. La transizione dalla dimensione collettiva del Teatro de los Sentidos a un’espressione più personale riflette una maturazione artistica che pone Salvaterra dentro una non ampia comunità di artistə che lavorano sul dialogo tra arte, ritualità e comunità. Il suo lavoro attuale continua a sfidare le convenzioni teatrali, proponendo esperienze che coinvolgono attivamente il pubblico e che si concentrano sul potenziale trasformativo dell’arte.
La performance si sviluppa attorno all’idea di una cena rituale, un momento condiviso che intreccia elementi narrativi, simbolici e interattivi. All’ingresso, come in diverse sue creazioni per spazi chiusi, lo spettatore viene accolto da un’installazione a pavimento, un’accumulazione di oggetti (in questo caso scatole, in altri fotografie, valigie, chiavi, lettere) che si intonano e diventeranno poi oggetto totemico della rappresentazione.
Il pubblico, come sempre nei suoi dispositivi, non è semplice spettatore, ma diventa parte integrante della narrazione, attraversando un percorso emotivo e sensoriale che mescola buio, luce e gesti simbolici. In generale qui l’esplorazione di ciò che è nascosto o non più visibile, o dimenticato, diventa il cuore del lavoro.
La tavola imbandita attorno alla quale si raccontano e si vivono unioni e fratture, il buio, la casa come oggetto simbolico, il ballo come momento di avvicinamento dei corpi nella sfera intima: sono elementi che ricorrono in molti dei dispositivi performativi di Salvaterra, ma che di volta in volta, e qui sta la diversità specifica, vengono ampliati, magnificati singolarmente. Salvaterra utilizza il simbolismo degli oggetti quotidiani – tavole imbandite, fotografie e piccoli oggetti accumulati – per creare un sistema poetico che parla di memoria, perdita e riconciliazione.
Questa performance amplifica il momento simbolico del desco; pare l’idea sia nata e si sia sviluppata in Cile, dalle difficoltà universalmente identiche di proporre lavori nei festival di arti performative. Ecco allora che l’artista ha iniziato a proporre presso la sua abitazione cene di matrice performativa, che hanno costituito la base di ispirazione per questa creazione, che ora può accogliere una ventina di persone circa.
Anche qui la ritualità, la memoria e l’intimità emergono come elementi centrali, intessuti intorno al tema dell’ultima e della prima volta. L’artista utilizza il linguaggio performativo per evocare la memoria e riflettere sul rapporto con il passato. Ne La ultima vez, ad esempio, il pubblico è invitato a condividere il momento del ricordo attraverso una ritualità condivisa, legata ai gesti del mangiare e dell’incontrarsi, in un’atmosfera che invita alla sospensione del tempo ordinario, proprio perché immersi in una condizione di parziale privazione sensoriale, che amplifica una serie di sensazioni accessorie, a cui difficilmente siamo attenti, continuando a tessere il suo dialogo costante con le fragilità e le potenzialità della condizione umana.
La capacità di coinvolgere gli spettatori in modo intimo e partecipativo resta una risposta critica alla distanza e alla frammentazione che caratterizzano la società contemporanea. In questa prospettiva, lo spazio performativo diventa spazio di trasformazione personale e collettiva, in cui la memoria e il presente dialogano per creare un nuovo senso del possibile. La scelta dell’Oratorio San Filippo Neri come spazio performativo non è casuale: la sacralità dell’ambiente amplifica, pur se non visibile nella sua bellezza barocca, il senso di ritualità e di raccoglimento. Lo spettatore, seduto attorno a una tavola imbandita, è invitato a riflettere su temi come la precarietà delle relazioni e la trasformazione degli oggetti e dei gesti del quotidiano in veicoli di significati più ampi. Questa intimità fisica e simbolica pone il pubblico in una posizione di apertura, invitandolo a interrogarsi sul proprio rapporto con il passato e con le narrazioni personali.
Dal punto di vista critico, La ultima vez può essere letta come una riflessione sull’arte stessa e sulla sua capacità di costruire ponti tra dimensioni apparentemente distanti: il pubblico e l’attore, il passato e il presente, la realtà e il simbolo. Salvaterra dimostra una rara capacità di utilizzare gli strumenti teatrali per andare oltre la rappresentazione, creando esperienze che restano sospese nella memoria dello spettatore come frammenti di un sogno collettivo.
Per chi ha seguito il percorso di Salvaterra, questo lavoro rappresenta un consolidamento della sua poetica, un passaggio più delicato su un’esperienza sensoriale più basica e accessibile, non costruita per indagare dolori e fratture ma per esplorare il rito della memoria rievocata dalla nutrizione, da quello sgranocchiare un pezzo di pane fresco che qui diventa un suono stereofonico incredibile. Sembra suggerire che il teatro non è soltanto un luogo fisico ma uno spazio mentale ed emotivo in cui ogni spettatore è invitato a partecipare, a interpretare e, infine, a creare.
Sì, torna il bigliettino con la singola memoria che siamo come sempre chiamati a lasciare, ma a differenza delle altre volte mi concentro sul mio spazio, sulla mia dimensione di prossimità. Temo di non saper portare il cucchiaio alla bocca. Di non trovare la via per il bicchier d’acqua, per tornare alla luce. Questo spettacolo è in fondo un invito a ripensare il modo in cui viviamo e condividiamo il nostro presente e il nostro passato.
È un invito a non enfatizzare solo le prime volte, ma a dar valore al presente e alla vita. Perché, e sono le parole con cui finisce il brindisi finale dello spettacolo, che avviene fra sconosciuti, potrebbe essere la prima ma anche l’ultima volta che ci si vede. Ecco, quindi, l’invito a magnificare ogni istante. Perché unico e irripetibile.
Delicato e soave.
LA ULTIMA VEZ (Cena clandestina)
di Gabriella Salvaterra
con Giovanna Pezzullo, Gabriella Salvaterra, Angela Sparvieri e altri attori
paesaggio olfattivo Giovanna Pezzullo
organizzazione Claudio Ponzana
produzione SST – Sense Specific Theatre / Artisti Drama
Oratorio San Filippo Neri, Bologna | 6 dicembre