OLINDO RAMPIN | Nel racconto Il nuovo avvocato, con cui Kafka apre Un medico di campagna, il cavallo di Alessandro Magno ha subìto una metamorfosi ed è diventato un avvocato, il Dr. Bucephalus, che passa il tempo a studiare il passato e le sue scritture, non più comprensibili. La modernità non contempla l’azione come la intendevano gli antichi, l’inerzia ha rammollito il grande condottiero e il suo cavallo per sopravvivere deve trasformarsi in un topo di biblioteca, in uno sparuto Azzeccagarbugli.
La mirabile invenzione di Kafka ci è tornata in mente, in modo imprevedibile, di fronte a una metamorfosi, certo molto meno misteriosa e molto più pop di quella elaborata dal poeta praghese. In Diciassette cavallini, il nuovo spettacolo di Rafael Spregelburd che ha debuttato al Teatro Due di Parma, il cavallo di Troia con cui Ulisse, macchinatore di crimini come lo chiama Virgilio, inganna i Troiani, si trasforma nel Balloon dog, il cane fatto con i palloncini gonfiabili da Jeff Koons. Lo scultore americano è del resto meritevole, come e più dell’Ulisse virgiliano, dell’appellativo di scelerum inventor. Riprodotto in grandi dimensioni, il cane gonfiabile domina la scena dello spettacolo.
La degradazione a seriale feticcio pseudo-artistico dell’ingegnosa invenzione di Ulisse è un possibile emblema della morte del Lògos, di quella parola che per i Greci era anche pensiero, ragione. Se quindi oggi siamo nel regno incontrastato dell’A-Lògos, dell’Anti-Lògos, allora l’ingegnoso organismo narrativo creato da Spregelburd può trovare una sua parziale collocazione genealogica. Possiamo vedervi, più ancora che un’operazione di anti-teatro o di post-teatro, di iper-teatro: una sorta di inesausto rompicapo o di teatro-enciclopedia che parodizza se stesso, frutto di una voracità culturale abnorme, di una libido teatrandi che accumula, connette e smitizza storie, miti, idee, nozioni, saperi, concetti.
Psicoanalisi, letteratura, filosofia, mitologia, epica, etnologia, antropologia, fisica, astronomia: un mostruoso, in senso etimologico, artefatto, un nuovo “crimine”, una “orazion” che da “picciola”, com’era nella versione dantesca di un Ulisse fraudolento motivatore, è divenuta ora smisurata, e per questo divora e risputa parossisticamente la mole plurisecolare delle acquisizioni delle scienze dell’uomo e delle scienze della natura, dall’umanesimo greco-romano allo scientismo neo-positivista.
Trattato di fisica e chimica e contemporaneamente parodia delle soap, della tragedia greca e del teatro cechoviano, pastiche maccheronico di letteratura alta e letteratura bassa, fusione della psicanalisi lacaniana con la palloncino-terapia proposta dal figlio inetto di una madre arcigna, mentre un idraulico con mezzo sedere scoperto cerca di calmare un poliziotto disturbato pluriomicida.
In questo iper-teatro carnevalesco nulla è vero e nulla è falso, la mitologia greca convive con la sua immagine dimidiata, con I miti greci che avevamo smesso di aprire dagli anni del liceo e che ora riappaiono, con vena surreale e grottesca, nella persona stessa del loro autore, quel Robert Graves che ci sembra un po’ una versione pop e disillusa di Bouvard e Pécuchet, i due copisti afflitti da un patologico enciclopedismo, a cui Flaubert aveva attribuito il compito di ripercorrere comicamente lo scibile umano. Quel Flaubert che è forse il primo ad avere avuto l’intuizione che l’ardore conoscitivo è anche un aspetto di quel modello di “cretino” che per lui è il borghese.
Non ci sembra casuale che lo spazio di questa libido teatrandi sia una scena che accatasta con opprimente disordine decine di objets trouvés come in un triste mercatino dell’usato: abiti smessi, biciclette, sedie, canestri da basket, grammofoni, fornelli vintage, manichini, ciarpame di ogni tipo. Disordine antiestetico che forse è anche un controcanto parodico a certe algide ed eleganti scene prive di oggetti e opifici in abbandono, proprie di un’estetica teatrale figlia di altre genealogie artistiche.
Se è una sorta di libido teatrandi che sembra reggere la “macchinazione” di cui Spregelburd è l’inventor, è allora una libido recitandi quella che necessariamente alimenta l’ardua prestazione psico-fisica richiesta alle attrici e agli attori del Teatro Due. La loro recitazione, continuamente esposta a sorprese, rivelazioni, agnizioni, digressioni, colpi di scena, epifanie che nella seconda parte dello spettacolo assumono finalmente la forma di una allegoria di marionette, ricorda il modo con cui il dottor Bucephalus, in un frammento che nel manoscritto kafkiano precedeva il testo della prosa, doveva difendere il fratello: con “un processo che sarebbe durato giorno e notte senza interruzioni per diversi giorni”. Che, pur nella durata reale di tre ore e mezza, è la percezione che si riceve dalla ammirevole performance della troupe parmigiana.
Non stupisce che nell’universo dell’Anti-Logos la parola cerchi disperatamente un riscatto attraverso una dispendiosa prova interpretativa. Né che Cassandra, motore dell’operazione drammaturgica, si sia trasformata, coerentemente con il cavallo di Alessandro e con quello di Ulisse, prima nella paziente borghese e nevrotica di uno psicanalista e poi, ancora peggio, nella psicanalista del suo stesso psicanalista, affetto da turbe della sfera sessuale.
La vera Cassandra conosceva il futuro senza essere creduta dalla comunità, per l’atroce, abituale malvagità degli dèi, in questo caso del suo aspirante predatore sessuale Apollo, che a tal fine le sputò in bocca. Quella capacità divinatoria si degrada ora nella cura che la psicoanalisi non sa offrire, perché il suo statuto epistemologico fornisce al paziente una difficile e sofferta crescita di conoscenza, non già la guarigione. Sicché anche Cassandra, come i guaritori di Molière e quelli di oggi, qualsiasi veste assumano, siano ciarlatani occulti o rappresentati da agenti e osannati in tournée nei teatri o sugli schermi di smartphone e tv, si tramuta anch’essa in una scelerum inventor, una inventrice di inganni.
Tale è la metamorfosi a cui è condannato l’uomo moderno dalla dicotomia tra la persona e la sua immagine riprodotta.
DICIASSETTE CAVALLINI
di Rafael Spregelburd
traduzione di Manuela Cherubini
con Alberto Astorri, Valentina Banci, Laura Cleri, Davide Gagliardini, Luca Nucera, Massimiliano Sbarsi, Pavel Zelinskiy
musiche Alessandro Nidi
scene Alberto Favretto
costumi Giada Masi
luci Luca Bronzo
assistente alla regia Francesco Lanfranchi
regia Rafael Spregelburd
Nuova produzione Fondazione Teatro Due
Teatro Due, Parma | 26 novembre 2024