Francesca Pozzo / Pac Lab * | Varcando la porta del Teatro Studio Melato di Milano, è impossibile non notare la terra che ricopre il perimetro scenico. Il Sogno di una notte di mezza estate (commento continuo) di Carmelo Rifici accoglie così lo spettatore, con il profumo del bosco e le impronte lasciate da chi si sistema nelle prime file. Gli spazi risultano raddoppiati: sul fondo si staglia una parete di specchi che riflette i numerosi microfoni sparsi, un divano situato vicino all’entrata e la platea che osserva ciò che sta per iniziare. Una scelta registica di senso che riprende l’originale, in cui ogni dinamica è accuratamente duplicata, con continui riverberi che analizzano i rapporti umani nella loro bellezza e vanità.
È buio e gli effetti sonori ci annunciano l’arrivo di una tempesta. Un occhio di bue illumina Ippolita (Cecilia Fabris), la regina delle Amazzoni. Smuove il suolo e va a rannicchiarsi all’interno di quella che sembra una vasca. Man mano che la scena si rischiara, si notano diversi strumenti che ne occupano i margini: un pianoforte, delle chitarre, una tastiera e un violino. La pluralità sembra rappresentare già una chiave di lettura dello spettacolo, non solo per il cast, che conta oltre una ventina di attori e altrettante parti, ma anche per il trattamento riservato al testo. Rifici, infatti, ci regala una versione integrale e filologica del Sogno, intervallandola, però, con inserti del drammaturgo Riccardo Favaro, che danno alla pièce una rilettura più moderna, grazie a una rivisitazione dei personaggi secondari. Un tentativo che potrebbe sembrare di difficile comprensione, ma che, invece, grazie alla fluidità della resa, risulta perfettamente naturale: le “aggiunte”, spesso rivolte al pubblico, vengono sempre pronunciate al microfono, creando, così, un netto distacco.
Fra queste, vale la pena ricordare il monologo di Ippolita, uno dei più potenti, sia per interpretazione che per scrittura. Come riporta il play shakespeariano, la donna è stata presa con la violenza e, nonostante il voto di verginità, deve unirsi a Teseo (Stefano Carenza), colui che l’ha abusata. Come una novella Cassandra ci annuncia una catastrofe: «È estate, ma l’inverno arriverà». Egeo (Edoardo Sabato), longa manus del potere maschile, le toglie il microfono. Straniera e isolata, viene ridotta al silenzio e nel suo strazio si legge la condizione in cui sono costrette molte minoranze.
Lo stesso meccanismo di sottomissione si verifica con gli innamorati: Ermia (Simona De Leo), figlia di Egeo, deve sposare Demetrio (Ion Donà), pur nutrendo dell’affetto per Lisandro (Simone Severini). Il sovrano cerca di costringerla all’obbedienza, ma i giovani rimangono fedeli a loro stessi e scappano nel bosco. In questo triangolo amoroso, si inserisce, però, un altro addendo: Egeo stesso. «Un uomo a metà», come confessa al microfono, dimezzato dalla bramosia che prova nei confronti di Demetrio e disposto a usare Ermia, pur di tenerselo vicino.
Ippolita si getta nella vasca, suggerendo un tentativo di suicidio, e nello stupore generale si ha il primo assaggio della grandiosità dell’assetto scenico. Si tratta di una piattaforma che sale e scende, permettendo le entrate e le uscite. L’Amazzone scompare e al suo posto ci viene presentata Elena (Miruna Cuc), nella sua decisione di informare Lisandro della fuga degli amanti. Vittime di un’attrazione non corrisposta, i due indossano il nero, in contrasto con il bianco di Ermia e Demetrio; una scelta che, però, investe anche gli altri personaggi, e che rivela la visione binaria che “abita” questo universo. In una sorta di scacchiera, tutti sono costretti a indossare un costume: quello della normalità.
Elena entra nel bosco, implorando Demetrio di amarla e si mettono entrambi sulle tracce dell’altra coppia. Poco dopo, in un gioco di teatro dentro il teatro, ci viene presentato il comic relief della vicenda: una compagnia amatoriale che decide di presentare ai regnanti la propria versione di Piramo e Tisbe. Tutti in salopette, i falegnami, gli stagnini e il resto delle maestranze tentano di spartirsi i ruoli. Nel farlo risultano in perfetta sintonia, sia nelle singole caratterizzazioni che nel rapporto con gli altri, contraddistinguendosi grazie a un approccio recitativo improntato alla fisicità.
Nick Bottom (Daniele Di Pietro) domina la scena con i suoi manierismi da primadonna, mettendo in crisi il capocomico e generando nel resto dei partecipanti un misto di ammirazione e sgomento. Inavvertitamente è proprio lui a entrare in contatto con l’altro mondo, quello che si cela dietro la parete di specchi, che crolla a terra, rivelandosi un sipario.
Entra così in gioco l’ultima linea narrativa, quella connessa al sovrannaturale, che intreccia i drammi degli umani con quelli del piccolo popolo. Appare una fata e ci introduce il conflitto che consuma i suoi sovrani: Titania (Giada Francesca Ciabini) si rifiuta di cedere un servo indiano a Oberon (Giacomo Antonio Maria), che lo brama ardentemente; si tratta, infatti, del figlio di una sua amica e lei non vuole distaccarsene.
Le loro motivazioni, sebbene ruotino attorno al concetto di proprietà, fanno emergere diverse declinazioni del desiderio. Una, al femminile, vissuta nel ricordo di un amore puro, l’altra semplicemente dettata dal possesso. L’egoismo, però, non risparmia nessuno, la natura è in subbuglio e le stagioni cominciano a confondersi. La selva e la città sono spazi che si mescolano e si contaminano, come le emozioni disordinate che infestano gli animi dei personaggi.
A porvi rimedio è il potere costituito, con una soluzione artificiale: un filtro versato sulle palpebre che, al risveglio, fa innamorare il malcapitato della prima creatura di cui incrocia lo sguardo. Il compito viene affidato a Puck, che qui viene intelligentemente sdoppiato. Infatti, Pasquale Montemurro e Joshua Isaiah Maduro condividono il ruolo, interpretando l’indole a tratti imbranata, a tratti maligna del folletto. Fra scambi di persona e colate di liquido colorato sul viso dei malcapitati, le variabili impazzite dei sentimenti si confondono ulteriormente. Lisandro e Demetrio giurano fedeltà a Elena e Titania si infatua di Nick Bottom, tramutato in asino. Legato a una corda, simbolo di una passione tossica, il tessitore diventa centrale nei pensieri della regina, facendole cedere l’oggetto della precedente contesa.
Avendo raggiunto il proprio proposito, Oberon annulla la magia. Con la passata di una spugna custodita dietro al divano/trono fa dimenticare a tutti dell’accaduto. Sorge il sole, i fanciulli vengono illuminati da una luce arancione; sia loro che Titania non ricorderanno ciò che è accaduto durante la notte. I giovani tornano in città, puliti, cambiati d’abito, tutti in nero, nonostante lo sposalizio dei reali di Atene. Demetrio è l’unico che continua a subire gli effetti della pozione; lui ed Egeo si guardano, fra loro si percepisce una sorta di amarezza, perché «la regola giusta è quella che rifugge il difetto».
Così, tramite l’inganno e la violenza, viene fatta la volontà dei re: Ippolita viene condotta all’altare, Titania è stata annichilita nella sua volontà. Il maschile riesce a mettere un freno al bosco, luogo per eccellenza dell’irrazionale, delineando limiti e ponendo gerarchie. Ma, come viene riportato, c’è un prezzo da pagare: «Non ci sono più uomini, non ci sono animali, non cresce più nulla».
Ricco di stratificazioni sul senso dei legami, questo Sogno mette in gioco un ampio repertorio di simboli, senza, però, risultare criptico o pretenzioso. La disparità fra i generi viene esemplificata dal disequilibrio dell’ecosistema che, invece di generare vita, crea una catena di soprusi. Quel che potrebbe fiorire viene tagliato via, normato dalle imposizioni di una “giustizia” che rimette ogni cosa al proprio posto. Ciò viene esemplificato dall’istituzione del matrimonio, che assume la sua forma peggiore: costrizione e obbedienza.
Tutto è tornato all’ordine e a infrangerlo, seppur per poco, è la messinscena di Piramo e Tisbe. Assistere alla recita fa quasi male, per quanto sono esatte e imbarazzanti le loro sbadataggini. Una comicità disagiante che, invece di risollevare gli animi, lascia un senso di sconforto, e apre la strada per una delle battute finali, che sembra riassumere tutto il senso di questa rilettura: l’altro è semplicemente l’io che non si sa amare.
SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE
(commento continuo)
di William Shakespeare / Riccardo Favaro
regia Carmelo Rifici
scene Paolo Di Benedetto
costumi Margherita Baldoni
luci Manuel Frenda
cura del movimento Alessio Maria Romano
musiche Federica Furlani
assistente alla regia Ugo Fiore
con Giacomo Antonio Maria Albites Coen, Andrea Bezziccheri, Agnese Sofia Bonato, Clara Bortolotti, Stefano Carenza, Bianca Castanini, Simone Pietro Causa, Giada Francesca Ciabini, Miruna Cuc, Simona De Leo, Silvia Di Cesare, Daniele Di Pietro, Marco Divsic, Ion Donà, Ioana Miruna Drajneanu, Cecilia Fabris, Joshua Isaiah Maduro, Pasquale Montemurro, Sofia Amber Redway, Edoardo Sabato, Caterina Sanvi, Pietro Savoi, Simone Severini, Lorenzo Vio
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Prima Assoluta
Teatro Studio Melato, Milano | 13 dicembre 2024
* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.