OLINDO RAMPIN | Qualche settimana fa abbiamo assistito al Teatro Due di Parma a I diciassette cavallini, multi-speziata creazione di Rafael Spregelburd. Non supponevamo di ritrovarvi, con Le Rane di Aristofane, un altro pastiche, diversamente assemblato. Composto nel 2012 e ripreso ora, può sembrare un suo antenato esemplarmente discorde, benché venerando e molto più accessibile.
Quanto l’autore argentino metteva a cimento spettatori e attori in un arduo puzzle di personaggi, temi, azioni, tanto il riallestimento aristofaneo mostra la sua esplicita natura di manifesto: breviario di virtù civiche travestito da farsa, Carta deontologica dei Teatranti & Cittadini consapevoli.

Non era estraneo al greco Aristofane un fine militante e ideologico quando scrisse quella che non è, come vuole la vulgata, una discesa all’inferno per cercare un poeta e salvare Atene dalla sua crisi culturale. È piuttosto una condanna feroce della nuova cultura e un elogio della poesia tradizionale, formatrice di una coscienza civica integrata. La nuova letteratura è rappresentata dal “furfante” (panoúrgos) Euripide, la vecchia letteratura dagli “onesti” (chréstoi) Sofocle ed Eschilo. Il conservatore Aristofane scrive quindi un’intera commedia per additare Euripide come il mandante culturale della disgregazione morale e politica della polis attica. Il titolo, più che il depistante Le Rane, che vi occupano un brevissimo cammeo, potrebbe essere “L’anti-Euripide”.

ph Andrea Morgillo

Firmata collettivamente dall’ensemble parmigiano – Gigi Dall’Aglio fu allora intervistato da Pac – questa riscrittura della commedia greca, rispettata nella sostanza dell’impianto originale, ne amplifica selettivamente, con una interpretazione legittimamente “infedele”, la natura di appello al pubblico a difendere insieme la cultura e il teatro dall’attacco dei nuovi barbari. Per farlo compone un blend di culture e generi, in cui la commedia dell’arte, la farsa, il cabaret, l’avanspettacolo prendono le forme di una singolare commistione. Brecht e i fratelli De Rege, la commedia dell’arte e il Fellini prima della Dolce vita, Ruzante e l’avanguardia protonovecentesca sono funzionali ad allestire un centone che ammonisce mentre diverte. Vi trova espressione un omaggio all’arte degli attori, un’orchestrazione duttile e adatta all’espressione della loro abilità interpretativa e di un certo clima, verace e accogliente, di teatro all’antica italiana.

Di questa filiazione grottesca e basso-comica, didattica e sentenziosa, il maggior emblema è la bombetta nera. Tutti, o quasi, dal Coro alle Rane, da Dioniso al servo Xantia, la indossano, con funzioni diverse quante sono le risonanze evocate. Adorna di grappoli d’uva, grottesca parrucca, la porta Dioniso, con cui Roberto Abbati costruisce un dolce-amaro e sapiente ritratto di capocomico, memore delle compagnie di rivista nella eterna e immobile provincia italiana, recitato con i toni, i gesti, la dizione di un compassato e ironico accademismo. Il suo servo Xantia, Davide Gagliardini, la abbina a un papillon e a una giacca oversize. La sua amabile furfanteria si veste linguisticamente di una parlata romanesca. I due copricapi richiamano più quelli dei fratelli De Rege, che quelli di Vladimiro ed Estragone.

ph Andrea Morgillo

Ne restano significativamente esonerati due soli personaggi: Eracle ed Eschilo, entrambi interpretati da Massimiliano Sbarsi, la cui allampanata figura cozza felicemente con quella forzuta del selvaggio figlio di Zeus e Alcmena. Alla bombetta deve sostituire una testa leonina di peluche, alla quale regredisce la leggendaria pelle del felino ucciso, mentre i muscoli erculei sono costruiti con un’imbottitura che lo rende debitore dell’energumeno che nel Monello è vessatore di un altro celebre indossatore di bombetta, Charlot. Eschilo, dal canto suo, rivive in lui con raccapricciante credibilità in un burosauro con grisaglia e medaglie al petto, reduce dall’Europa oltrecortina pre-1989. La bombetta conferma la sua funzione drammaturgica quando, con Euripide, si tramuta in cilindro: Luca Nucera lo ritrae, camicia bianca e gilet nero slacciato, con gli abiti di un Rino Gaetano intellettualizzato e stravaccato su una Ektorp bianca con i braccioli disegnati con i pennarelli in forma di colonne ioniche, in un aberrante duello tv.

Vagamente beckettiane, ma soprattutto brechtiane, sono le bombette del Coro, impersonato tra gli altri da Cristina Cattellani e Laura Cleri. Le sostituiscono con una parrucca e un abito giallo fluo quando interpretano le rane, quasi un café chantant virato al camp. La vorace inclinazione accumulatoria non rinuncia a inserire anche un estratto, più filologicamente inteso, delle tragedie dei due duellanti. Trova modo di farsi strada anche qui l’impressione che queste Rane trovino il loro fine più autentico nella dimensione interpretativa: atto di amore e di fede verso l’artigianato attoriale, verso il teatro come arte dell’attore e del drammaturgo. Non a caso lo spettacolo, dopo la prevedibile sconfitta di Euripide e il trionfo di Eschilo, termina con l’ascensione al cielo di tanti palloncini gonfiabili colorati, ognuno dei quali impersona il ricordo e l’omaggio commosso agli scrittori accolti nel pantheon della compagnia.

ph Andrea Morgillo

 

LE RANE
di Aristofane

ripreso e interpretato da
Roberto Abbati, Cristina Cattellani, Laura Cleri,
Davide Gagliardini, Luca Nucera, Massimiliano Sbarsi

regia di
Roberto Abbati, Paolo Bocelli, Cristina Cattellani,
Laura Cleri, Gigi Dall’Aglio, Luca Nucera,
Tania Rocchetta, Marcello Vazzoler

musiche Alessandro Nidi
scene Alberto Favretto
costumi Marzia Paparini
luci Luca Bronzo

produzione Fondazione Teatro Due

Teatro Due, Parma | 11 gennaio 2025