Maria Pia Monteduro | “Primavera Argot” è una delle tante iniziative positive e stimolanti realizzate da Teatro Argot Studio, che da oltre trent’anni anima il panorama teatrale romano con testi di ricerca e nuove sperimentazioni, non tralasciando mai un’occhiata interessata al classico. Questa rassegna specificatamente è dedicata, come è indicato dal Teatro stesso, ad “alcune delle più interessanti realtà teatrali che negli ultimi cinque anni stanno lasciando il segno. Realtà indipendenti, cioè responsabili del proprio destino da un punto di vista economico ed artistico.” In quest’ottica s’inserisce lo spettacolo “Antigone”, la ribelle figlia di Edipo, la mai doma nipote di Creonte, la mancata sposa di Emone.
La pièce si basa solo sul dialogo/scontro tra Antigone e Creonte, l’una rappresentante della libertà di coscienza più forte di un supino rispetto della legge, l’altro come il tutore della legge e dell’ordine a costo anche di vivere una vita solitaria e incompresa.
Interpeti Julia Borretti e Tetta Ceccano, cioè Matutateatro, che hanno anche ideato il testo e diretto lo spettacolo. Matutateatro nasce dall’incontro tra questi due attori, autori e registi che raccolgono l’eredità contaminata di un teatro artigianale, non facilmente etichettabile in genere o stili precostituiti. Nella loro autoformazione hanno incontrato e assimilato tecniche e teorie dal teatro di tradizione e dal teatro di strada, l’Odin Teatret e Mamadou Dioume, Bogdanov e Monetta, Quartucci-Tatò e il Teatro Ippocampo, Marise Flach e Mario Barzaghi, Massimiliano Civica e Ilaria Drago, Enzo Moscato e Furio Scarpelli in un positivo rapporto, vitale e insostituibile per la visione pluralista e aperta della concezione di spettacolo. Nello scontro con Creonte sembra sia la giovane la vera vincitrice e il re sconta con l’angoscia della solitudine il rifiuto di tener conto proprio degli affetti familiari e della fede religiosa, che nella vita e nell’agire dei singoli individui hanno un’importanza fondamentale.
Ma il Matutateatro vuole mettere il pubblico dinnanzi alla complessa scelta di prendere o le parti della giovane donna che seppellisce il fratello ignorando la volontà del re, o quella del re stesso che fa rispettare la legge a costo di intaccare la propria quiete familiare. Il testo è un intreccio tra la classica tragedia sofoclea, la versione novecentesca di Jean Anouilh e quella cinematografica di Liliana Cavani (I Cannibali, 1969); proprio dalla versione cinematografica sono tratti alcuni brani, di cui è trasmessa la voce off, a commentare le parole dei due co-protagonisti e a sottolineare l’attualità del testo. La prima parte è affidata alla giovane Antigone che, ben conscia delle conseguenze estreme che avrà il seppellimento di Polinice, si abbandona a ricordi e speranza in un immaginario dialogo notturno con la sorella Ismene e il promesso sposo Emone, figlio del re Creonte.
Quando irrompe Creonte, già si comprende che non c’è alcun margine per la trattativa tra i due personaggi, ognuno legato indissolubilmente alla fissità del proprio ruolo. Emerge, forte, la debolezza del re, sottolineata da gesti e parole, e la ferma convinzione di come chi “comanda” sia spesso in realtà “comandato” dal proprio ruolo, dalle regole che spesso egli stesso ha fissato. Creonte cerca spesso di offrire una scappatoia alla giovane nipote, più per preservare il proprio futuro da rimorsi che per sincero affetto parentale, non rendendosi conto di quanto sia determinata e forte la ragazza.
Spettacolo intelligente, ben recitato e diretto, di cui però, forse per la complessità del tema e nello stesso tempo per la notorietà della vicenda narrata, si avverte la necessità di una durata maggiore, di un maggiore sviluppo e di un maggior scandagliamento delle tematiche affrontate.
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