MARIA PIA MONTEDURO | Una rappresentazione apparentemente fuori dai tradizionali schemi del teatro classico greco. Apparentemente però, perché, come vedremo, Moni Ovadia con queste “Supplici” riafferma come il teatro sia stato, e continua a essere, la risposta di una comunità ai problemi che l’attanagliano.
Ma andiamo con ordine. La 51° stagione dell’Inda, la Fondazione che gestisce il Teatro Greco di Siracusa, è stata inaugurata venerdì 15 maggio dalle “Supplici” di Eschilo, nell’adattamento scenico di Moni Ovadia, Mario Incudine e Pippo Kaballà. Il testo, come ampiamente riportato dalla stampa nei giorni precedenti, è stato tradotto in siciliano e greco moderno. Siciliano per esaltare l’humus e la temperie culturale da cui nasce e in cui si inserisce il Teatro Greco di Siracusa, e anche per ricordare gli strettissimi rapporti tra il tragediografo Eschilo e la terra di Sicilia, dove egli morirà. L’uso del greco moderno invece per evidenziare, senza mezzi termini, l’enorme, e non assolto, debito, che tutta la cultura occidentale ha contratto con la Grecia classica, sorta di risarcimento morale alla Grecia contemporanea.
Il tema forte del testo e dello spettacolo è l’accoglienza di chi chiede asilo. Come le cinquanta supplici figlie di Danao invocano protezione a Pelasgo, re di Argo, così oggi i migranti chiedono asilo e protezione al mondo occidentale. “[…] chista è la sorti di ogni emigratu / semu esuli… ormai, sempre cchiù disperati / e sapiri parlai pò canciari ‘a vintura / lu debbuli parla ccu paroli assinati […]” specifica Danao. Il dolore di questi migranti è un urlo di disperazione, una domanda di aiuto alla quale Pelasgo, uomo che pone il potere, il suo potere, al servizio della collettività, non sa e non vuole rispondere se non dopo aver consultato, democraticamente, il suo popolo. La figura di Pelasgo trasuda autorevolezza, perché non ordina, non impone, ma decide secondo giustizia, ben conscio di cosa vorrà dire accogliere le supplici (la guerra), perché è importante, anzi fondamentale, seguire la giustizia, non la convenienza: “la giustizia è libertà”, l’accoglienza è libertà” verrà detto.
Un insegnamento morale, etico, civico fortissimo, che Eschilo consegna e che Ovadia recepisce in pieno e amplifica attraverso uno spettacolo che esce dai canoni tradizionali ed entra in uno stilema quasi brechtiano, dove il canto, i movimenti coreutici, le coreografia, ogni componente dello spettacolo ha il duplice ruolo di attrarre lo spettatore, tenendo altissima la sua attenzione, per trasmettergli il messaggio, forte, indubitabile. E per rafforzare ancora di più il legame con la terra di Sicilia, tutta la vicenda è declinata nello stile del cantastorie, affidato alla personalità prorompente e teatralmente imponente di Mario Incudine, che apre e chiude lo spettacolo, presentandosi alla fine come “Eschilo siciliano”.
L’operazione che Moni Ovadia conduce è di ampio impegno civile, portando nel finale sulla scena veri giovani migranti, attualmente ospitati nei centri di accoglienza del Siracusano, perché il teatro è finzione, ma è anche specchio della realtà, è analisi della realtà, è risposta alla realtà.
Tutto il foltissimo cast (un centinaio di persone) è di ottimo livello: Moni Ovadia, re Pelasgo, troneggia sulla scena, e tutti i suoi movimenti, regali e autorevoli, sono amplificati dallo straordinario manto (i costumi, bellissimi, sono di Elisa Savi) che lo accompagna e lo precede nei suoi spostamenti sulla scena. Molto suggestiva la prova della prima corifea, Donatella Finocchiaro, che rende lo strazio e la paura delle supplici con convinzione e partecipazione. Inoltre: Angelo Tosto (Danao), Marco Guerzoni (Araldo degli egizi), le corifee Rita Abela, Sara Aprile, Giada Lo Russo, Elena Polic Greco e Alessandra Salamida, Faisal Taher (voce egizia). E poi gli allievi dell’Accademia d’arte del dramma antico “Giusto Monaco” che hanno interpretato il coro della Danaidi, le donne e gli uomini del popolo e gli armigeri egizi, tutti coordinati dal “maestro” dei movimenti Dario La Ferla. Movimenti perfetti, visibili da ogni punto, in quello che è il più grande teatro del mondo ellenico, fuori e dentro i confini della Grecia stessa. A margine della grande scena, enormi statue liberamente ispirate all’arte greca arcaica, issate su altissimi bastoni, a collocare la vicenda nell’epoca più antica della civiltà greca, nel mito.
Un’altra componente spettacolare molto pregnante è la musica di tamburi, clarino, chitarra e fisarmonica, scritta da Incudine ed eseguita dal vivo dai musicisti Antonio Vasta, Antonio Putzu, Manfredi Tumminello e Giorgio Rizzo. Musica che assomma in sé reminiscenze greche antiche, arabe, addirittura alcuni tratti della musicalità klezmer, forse a sottolineare il peregrinare cui alcune popolazioni sono costrette dalla Storia…
La capacità registica, ma prima ancora di intellettuale, di Moni Ovadia è stata l’aver concretizzato che il teatro, dalla sua nascita proprio in Grecia e per sua precipua essenza ontologica, è stato, e continua a essere, la risposta con cui una comunità affronta e cerca di risolvere i nodi della sua realtà, con una ritualità in cui la dimensione sacra e cultuale è sorprendentemente presente. Se è vero, come è vero, che oggi un problema drammatico nell’Occidente è l’accoglienza dei profughi e dei migranti e la gestione di tale accoglienza, Ovadia ha dato linfa vitale al testo classico, la cui caratteristica è sempre la perenne attualità. Quindi rottura con gli stilemi tradizionali della rappresentazione classica, ma per dare al teatro tragico greco ancora più forza e più capacità di essere compreso. Ovadia, come il suo re Pelasgo, ha avuto coraggio: la standing ovation finale dei quattromila spettatori che affollavano la straordinaria cavea sulle pendici sud del colle Temenite sembra suggerire che ha avuto ragione e che il messaggio è giunto ai destinatari. E questo dà speranza.