FRANCESCA CURTO e VALENTINA SORTE | Tra le proposte più innovative messe in campo dalle creatività lombarde di Ritorno al Futuro spiccano i quindici minuti di “Senso”, prima produzione di PietraTeatro che mira a condurre gruppi di sette spettatori attraverso un percorso di riscoperta dei cinque sensi, assorto nell’oscurità.
«Aspettate qui» è l’unica indicazione che arriva da un moderno Caronte dopo che ha “traghettato” in fila indiana le sette anime nello Spazio Idra di Brescia. La piccola attesa che pare un’eternità offre allora una prima occasione di ascoltarsi e di cercare un contatto con gli altri. Si respira stupore, allegria e un po’ di titubanza, finché dal grande buio comincia ad avanzare la piccola luce di una torcia, tra le mani di un’attrice bianco-vestita che vuole essere seguita in uno strano angolo di Paradiso in cui lei rappresenta la divina Beatrice. Beatrice è la luce, e con lei il primo senso, la vista, si accende su sei corpi femminili che cominciano a svegliarsi tra le bianche lenzuola di un letto improvvisato in una buia soffitta. Quando il letto si svuota delle sue ninfe dormienti, tocca allo spettatore prenderne il posto e avvertire la morbidezza del suolo e la dolcezza dell’abbandono. A ciascuno dei sette eletti spetta infatti una ninfa, che con fare materno lo accompagna ad adagiarsi tra le lenzuola.
«Chiudi gli occhi»gli sussurra all’orecchio e, mentre lo strofinio delle lenzuola che passano sulle gambe simula il vento e smuove l’olfatto con un profumo di fresco, si ode il racconto di un bambino che corre tra i gelsomini ed assapora una ciliegia prima che arrivi l’inverno, che con la sua neve sembra solleticare gelidamente i piedi. Con la stessa dolcezza la ninfa lo conduce al risveglio e all’intimità del luogo materno, collocato agli angoli del materasso.
«Accarezza il ventre della lupa» è il nuovo invito delle ninfe, che introducono la mano degli eletti in una concavità di pelle che non si sa quanto è possibile esplorare. Dopo l’incontro più intimo con il corpo materno, le ninfe si scompongono con la stessa fluidità del gocciolio che le accompagna, in statuarie madonne con bambino, per poi tornare tra i loro canti al letto in cui l’inerme spettatore vorrebbe nuovamente accoccolarsi un’ultima volta. Ma il quarto d’ora è finito e Beatrice riappare con il faro acceso per esortare gli spettatori a lasciare una volta per tutte l’onirico posto e a cedere il morbido letto al prossimo gruppo.
Grazie anche al coordinamento di Animanera, la performance ideata da Natascia Curci offre un’esperienza piacevole e personale allo spettatore e agli stessi attori che partecipano a questa forma di teatro performativo talmente priva di limiti e barriere – a cominciare da scarpe, borse e zainetti – da risultare estraniante. Questa totale libertà rappresenta per PietraTeatro la sua forza ma anche il suo difetto, di fronte all’impatto di un’esperienza personale così forte il rischio è infatti di non riuscire a rendere tutti partecipi allo stesso modo nel progetto.
Nel quadro del festival, un’altra proposta originale è stata sicuramente la riscrittura de La Bottega del Caffè presentata da La Confraternita del Chianti.
Sotto la penna di Chiara Boscaro, il testo goldoniano riacquista una nuova vita. Il toscano che l’autore veneziano aveva scelto nel 1750 come lingua accessibile a un largo numero di spettatori, viene rimpiazzato da un impasto linguistico molto vivace, ricco di espressioni e inflessioni dialettali. La novità del linguaggio non si esaurisce però in questa forte caratterizzazione, ma si traduce in una vera operazione di attualizzazione. Goldoni fa un salto nella contemporaneità: freespin, scatter e video poker diventano la nuova grammatica del ludopatico.
Marco de Stefano non è da meno e firma una regia agile ed elastica. La chiave del suo lavoro sta nell’uso dello spazio scenico. La Bottega del Caffè si svolge infatti in un tipico campiello veneziano. Per riprodurre questo effetto, il giovane regista spezza il rapporto di frontalità fra pubblico e palcoscenico. Lo fa sia accogliendo in scena sei malcapitati spettatori, sia offrendo alla platea una “visione a 360 gradi”, spostando spesso l’azione dei personaggi lungo i corridoi laterali o il fondo della sala. L’impressione è quella di essere in una piazza e di partecipare collettivamente a una tragicommedia privata.
Non è un caso allora che una vicenda come questa, piena di colpi di scena, equivoci e svelamenti sia l’occasione per La Confraternita del Chianti per sfruttare, mentre li addita, tutti i meccanismi teatrali. Gli a parte diventano così veri e propri esercizi di metateatralità. E in questo gioco di continui rimandi, il grande assente è proprio il protagonista della storia, Eugenio. Di lui, sappiamo che passa tutto il tempo nella sala giochi, ma non lo vediamo mai. A suggerire la sua presenza una fessura nel sipario, alle spalle degli attori, e una vistosa insegna luminosa: “SLOT”.
La direzione d’attori è piuttosto buona. L’interpretazione è volutamente sopra le righe, esaltata dalla mimica facciale grazie all’uso della biacca. Convincenti Marco Pezza (il Conte Leandro/Flaminio), Giulia Versari (Lisaura, Placida) e Diego Runko (Ridolfo), bravi Giovanni Gioia (Don Marzio) e Valeria Sara Costantin (Vittoria).
Meritati dunque gli applausi. Resta però un interrogativo. Come tutte le commedie dal piglio frizzante e pungente, la rapidità degli affondi e la facilità delle risate rischiano di rimanere una provocazione e di non fare veramente presa sullo spettatore, anche fuori dalla sala. La giovane compagnia sembra voler scampare a questo pericolo e termina lo spettacolo con un appello diretto al pubblico: «avete riso di questi personaggi, fate che non si abbia, da oggi, a ridere di voi». Basterà?