VALENTINA SORTE | La 69° edizione del Festival d’Avignone ha messo al centro delle sue riflessioni l’Altro: “Je suis l’autre”. E Thomas Ostermeier con il suo Riccardo III moderno e sopra le righe ha interpretato perfettamente questa istanza di alterità.
Lo spettacolo è costruito principalmente su due livelli. Mentre il Duca di Gloucester – interpretato da un bravissimo Lars Eidinger – riesce con abilità a sedurre e manovrare tutto il suo entourage, grazie al potere della parola, il regista tedesco riesce la stessa “manipolazione” col pubblico. Nonostante la malvagità e l’efferatezza dei suoi atti, durante le 2h30 di spettacolo il suo Riccardo seduce lo spettatore, rendendolo in qualche modo complice dei suoi istinti e delle sue macchinazioni. Come? Dichiaratamente. L’operazione è molto trasparente e leggibile da parte del pubblico, e per questo motivo ancora più sconvolgente. Emotivamente si vive questa fascinazione, ma pienamente consapevoli del processo in atto. Usciti dalla sala, la sensazione è quella di essere stati ammaliati da questa figura perversa e crudele, forse non così tanto estranea e lontana da noi. Ma cominciamo dall’inizio.
Il contesto storico è la guerra delle Due Rose, in scena però i personaggi vestono e parlano la contemporaneità. Nel testo shakespeariano, Riccardo III è già un uomo sgradevole, sia nell’aspetto che nelle azioni. È un essere deforme e assetato di potere. Non esita a uccidere chiunque si interponga fra lui e la corona d’Inghilterra. Ostermeier parte da qui, dalla deformità fisica e morale del personaggio: gobbo, dall’andatura claudicante, storpio a un piede, con un casco di cuoio sulla testa e l’apparecchio ai denti. Ma piuttosto che insistere sulla sua mostruosità, agendo su un meccanismo di estraneazione e di distanza, usa le perversioni di Riccardo per fa emergere gli istinti più nascosti e inconfessati presenti in ognuno di noi. Tutto lo spettacolo gioca sull’identificazione. La sua lingua è tagliente e manipolatoria, ma corrompe e tortura chi glielo consente, come Lady Anna che dopo le prime resistenze, decide di sposarlo, nonostante per mano sua abbia perso il padre e il marito Edoardo. Grazie all’uso di un microfono – appeso a un lungo tirante elastico calato dal soffitto e trasformato in una sorta di estensione vocale della sua intimità – il Duca di Gloucester commenta con degli a parte le sue reali intenzioni e la facilità con cui gli altri si lasciano irretire. Nello spazio di questi commenti – vero homo ludens – Lars Eidinger porta il pubblico dalla sua parte.
Per questo motivo, la regia di Ostermeier mira a creare fin dal primo momento una stretta complicità fra gli attori e il pubblico. Riuscitissima in tal senso la scenografia concepita da Jan Pappelbaum, che avanza il palcoscenico verso la sala, ridisegnando il rapporto fra scena e platea in termini di prossimità e trasformando l’Opéra Grand Avignon in una specie di vecchio Globe. Questo effetto viene rafforzato da alcune inquadrature di Riccardo in primissimo piano, nei momenti più sadici o onirici della pièce. Estensioni iconiche della sua interiorità.
E forse spinto da un’eccessiva intimità col pubblico o dalla libertà di improvvisazione su cui si regge in certi punti lo spettacolo, Lars Eidinger rischia in più occasioni di uscire troppo dal personaggio e di rubargli la scena. Infastidito dai flash di una spettatrice, l’attore in due riprese interrompe la performance per apostrofarla e ricordare l’unicità del teatro nella sua irrepetibilità e irriproducibilità. Parole molto intense e che gli valgono diversi applausi ma che segnano delle vere invasioni di campo. Per fortuna lo spettacolo ha molta coesione e un buon ritmo, dati dalla ricchezza dei registri e dall’agile uso dello spazio scenico, sia per le entrate e le uscite dei personaggi (lungo i corridoi della platea) che per i loro spostamenti (in altezza, sui due piani). In questo modo le due interruzioni non spezzano eccessivamente la fluidità delle scene, anche grazie alla batteria di Thomas Witte, che come un continuum accompagna fino alla fine i momenti più significativi della vicenda, con una funzione quasi drammaturgica.
L’ultima scena è magistrale, e si chiude con il personaggio esamine, dopo una lunga notte, divorato dai suoi stessi fantasmi e appeso in alto come la carcassa di un animale. Ostermeier osa e osa in tutto, offrendo un’ interessante lettura della pièce che sposta i confini tra bene e male, e apre molti interrogativi sulla capacità del teatro di esorcizzare i nostri orrori. Uno spettacolo da non mancare.