RENZO FRANCABANDERA | le segrete della paranoia, sculture pittoriche e di luce, e catene mentali e sonore contemporanee. E al centro un uomo solo, seduto a testa in giu’. Bob Wilson, dopo il primo fortunato tentativo di collaborazione in The Old Woman, firma regia scene e luci per il ritorno sotto la sua direzione di Mikhail Baryshnikov, la leggenda vivente della danza classica, prossimo ai settanta, ma con grazia di movimenti indicibile, raccchiusa tutta in questo vortice di esperienze.
Le scene incorniciano e imprigionano l’uomo in un universo ovattato, in cui la sua voce è registrata in playback. Nessun rumore, neanche un passo, si ode oltre quello che la macchina scenica propone; imprigionato nelle sue paranoie, quello che in Letter to a man Wilson propone al pubblico, in un testo tratto da i Diari di Vaslav Nijinsky, scritti nel 1919 dalla leggenda della danza di inizio Novecento, anima dei Ballets Russes di Sergej Diaghilev.
I diari aprono squarci lisergici su una psiche alimentata dall’arte e dal pensiero alto, e i tormenti sul sé disturbati dall’Ego, così spesso posto in paragone con la deità.
Da questa lotta con l’immateriale, che è la stessa che poi alimenta la guerra di ogni ballerino con la forza di gravità, con le leggi universali, con l’umano troppo umano, viene fuori una tessitura di parole che nel testo elaborato da Christian Dumais-Lvowski per la drammaturgia di Darryl Pinckney, finisce per proporre frasi a ripetizione ossessiva, esattamente come si generano nella testa del folle, del “lunatic”.
Wilson gioca con le luci, le sue luci fredde, chimiche, alcune studiatissime ambientazioni sceniche, paesaggi materiali e immateriali, foreste di stoffa mosse da un venticello, ombre immobili di sè che avanzano lente, interni di chiese o prigioni dalle quali l’uomo guarda verso un fuori senza forma, paesaggi quasi figli dell’lsd, con foto in movimento, personaggi marionetta e fiori giganti.
Il tutto immerso in un tappeto di musiche, scelte da Hal Willner, che sono davvero un pot pourri di sonorità, dalle minimal fino ai classici del ragtime.
In queste stanze di follia, vestito in abito elegante come gli uomini di Magritte, con il trucco wilsoniano bianco e le sopracciglia marcate del solito Jacques Reynaud, si muove Mikhail Baryshnikov, spesso con una lentezza esasperante, bloccato in fotogrammi cristallizzati da questo o quel fermo luci.
Presentato al Festival dei 2Mondi di Spoleto, con la produzione esecutiva del CRT Milano, in lingua inglese e russa con sottotitoli in italiano Letter to a man si regge su un equilibrio e una lettura della follia come universo di parole immagini fisse ed ombre che non riesce a comunicare e a comunicarsi, frammentato, assurdo e non conseguente, diviso ma indivisibile, di luci e bui, ma soprattutto di una lentezza che lo spettatore deve avvertire, un calvario di posizioni e riproposizioni, di detti e ripetuti ossessivi, con fermi immagine e passi che progrediscono verso il nulla. Ecco, se questo è il paradigma della pazzia di Nijinsky per Wilson, riletta con il corpo di Baryshnikov, lo spettacolo che consegue è lineare e fedele al postulato.
Ripetizioni ossessive seppure in un tempo breve ma che Wilson sa trasformare in interminabile, fermi immagine e passi impercettibili affidati ad Baryshnikov che riesce a teatralizzare il suo personaggio in modo esemplare essendo chiamato a fare quello che da sempre sa fare, ostensione artistica e statuaria del suo corpo, e ora che il suo corpo è cambiato l’ostensione non avviene più nella leggendaria calzamaglia ma in smoking nero, quasi prestigiatore nella cornice di un teatrino d’altri tempi dove tutto appare e scompare a vista con i tecnici che smontano sotto gli occhi del pubblico le macchine sceniche perfette via via realizzate, mescolando al delirio della pazzia la pratica della vita dell’artista di spettacolo, come a dire che il bordo è così sottile, che a volte percepire la differenza fra vita, scena e follia è davvero solo un punto di vista. Magari sotto le luci di un puntatore color fucsia.