MARTINA VULLO| Robert Wilson si presenta come un signore anziano dall’aria burbera, il colorito paonazzo e l’espressione seria. Quando in occasione della conferenza stampa al comunale di Bologna, esordisce in sala fra gli applausi di critici e fotografi, fa un cenno di ringraziamento con la testa, si lascia fotografare e con fare composto prende posto al tavolo dei conferenzieri. Guardando il suo volto lo immagino all’interno di un contesto diverso e penso che mi sarebbe difficile associarlo all’idea del genio visionario che dagli anni ’60 ha rivoluzionato il modo di pensare la luce, guadagnandosi un posto come innovatore della scena, nella storia del teatro contemporaneo.
Il Macbeth di cui Wilson ha firmato la regia, come suggerisce la location del teatro comunale, non è il rifacimento della tragedia shakespeariana, ma un innovativo allestimento del melodramma verdiano che ne deriva. La direzione è affidata al maestro Roberto Abbado.
Verdi nella sua opera definisce i personaggi per grandi pennellate. Le caratteristiche essenziali sono restituite foneticamente: la malvagità di lady Macbeth è espressa ad esempio con chiarezza nella sua invocazione del vaticinio agli spiriti, dove la melodia è scomposta, quasi gridata e decisamente spigolosa. Caratteristiche simili hanno i canti delle streghe: analogia che ci porta a pensare che la stessa Lady Macbeth, tanto inquietante e misteriosa, possa essere una di loro. Macbeth nonostante il ruolo da protagonista canta con voce da baritono (tendenzialmente affidata nell’opera, agli antagonisti della situazione). Pochi elementi che nell’insieme restituiscono il senso di un’opera cupa all’insegna del sangue, della follia e dell’ambizione smisurata.
Bob Wilson pensa la propria scenografia come una sorta di contrappunto alla partitura sonora. Per realizzarla si ispira alla tradizione del teatro NŌ e gioca di astrazione, ricorrendo talvolta alla non linearità di movimento e musica, come ad un valore aggiuntivo. I movimenti sono plastici, ridotti e spesso seriali. I personaggi che li compiono paiono grandi burattini: impressione rafforzata dalla colorazione bianca applicata ai corpi, finalizzata essenzialmente al gioco delle luci, ma che conferisce agli interpreti un ulteriore tocco di impersonalità.
Non tutti i visi sono ben visibili: Il primo dei quattro atti si apre sulla profezia delle streghe che incombono sulla scena incappucciate e avvolte da mantelli neri. Si muovono sincronicamente e formano tre gruppi distinti per poi mescolarsi nuovamente. L’elevazione della carica con cui il re viene salutato è sostenuta dall’innalzarsi del tono e del volume della musica. Di forte impatto il movimento che accompagna Il crescendo finale della profezia, nel quale degli scudi luminosi, celati prima dai mantelli delle streghe, si innalzano a incontrare un’intensa luce bianca. L’immagine che ne scaturisce è quella di un fulmine nella tempesta.
È un Macbeth all’insegna della contaminazione, in cui le parole delle arie verdiane si illuminano sul tecnologico maxischermo collocato al di sopra della scena e dove i pannelli dai colori incandescenti, che spesso fungono da scenografia, si mescolano alla vista dei palchetti del comunale, dalle arcate bianche e oro.
Di contaminazione si può parlare anche per la scelta dei costumi: c’è un che di orientale che accomuna il tetro abbigliamento squadrato e l’acconciatura di lady Macbeth, col trucco accentuato di molti personaggi. Non mancano però stili di abbigliamento differenti come i mantelli dorati e rifrangenti dei congiurati di Banco, o le vesti nere dei due personaggi dalle maschere animalesche, che si cimentano in una danza dal carattere onirico sulle note di Ordine e Silfidi.
Procedimento comune alle regie di Wilson è l’utilizzo di uno sfondo piatto ricoperto da una tela che fa da supporto ai riflessi della luce. L’espediente ritorna anche nel Macbeth dove i più intensi giochi di colore avvengono proprio a partire dallo sfondo, con gradazioni cangianti che muovono dal bianco al blu (più raro l’utilizzo del rosso).
Sin dai primissimi spettacoli teatrali, il regista, si è servito di questo strumento per mettere al centro delle performance, le caratteristiche fisiche dei protagonisti. L’utilizzo di uno sfondo piatto, infatti, fa perdere la sensazione della tridimensionalità dell’immagine, conferendole un’energia tutta nuova, ulteriormente enfatizzata dalla lentezza dei movimenti e dalla loro serialità.
Se negli spettacoli teatrali un meccanismo simile veniva applicato al corpo di un solo performer (spesso non-attore e scelto sulla base di specifiche peculiarità fisiche), nel melodramma la sfida di Wilson consiste nel gestire una quantità molto elevata di artisti, riuscendo a trattarli come un’unica entità.
Ma tutto questo non è abbastanza. Luce e colori continuano a insinuarsi sulla scena attraverso le più svariate strategie: capita che due grandi pannelli luminosi e diagonali si fronteggino a formare un banchetto o che delle porte luminose vengano trasportate in scena dagli stessi personaggi. Strass colorati sono calati dal soffitto a simulare delle stelle e di grande forza scenica risultano le paillettes dorate con i riflessi che producono. Lo stesso si può dire del cerchio arancione che si sposta sulla scena restituendoci l’idea di un grande sole.
Suggestivi gli effetti ombra che Wilson realizza sui principali personaggi nonostante l’oscurità della scena, mentre i pannelli fissi e di diversa intensità attaccati alla superficie del palcoscenico, non sembrerebbero avere una funzione drammaturgica.
Ma gli elementi coscientemente meno percepibili, sono quelli che maggiormente contribuiscono a creare l’atmosfera: lezione di cui Wilson fa tesoro e non solo in quanto designer della luce.
In un dramma totale quale si rivela il Macbeth non si può certo dire che la scenografia prevalga: l’orchestrazione di Abbado che dà enfasi ai contrasti timbrici già caratteristici in Verdi, è il pilastro portante dell’allestimento scenico.
Siamo in presenza di un’opera in cui una scena astratta, algida e geometrica, convive con una musica bollente quale quella di Verdi. Ne deriva un Macbeth che volendo usare le parole di Wilson, è al contempo “fuoco e ghiaccio, acciaio e velluto”.
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