IRIS BASILICATA | Ai posti 10 e 12 della fila E del teatro Vascello non c’è nessuno. È sabato sera, la città è vuota ed è inutile che ci giriamo intorno: i fatti di questi giorni hanno inevitabilmente condizionato il nostro quotidiano. Si esce di meno e per le strade o sui mezzi pubblici si respira una strana atmosfera. Il palco, invece, non è vuoto: una ballerina è lì per noi, per danzare la sua storia. L’artista in questione è Stéphanie Fuster, ballerina di origini francesi approdata in Andalusia nel 1996 per un corso di flamenco diventando una delle bailaora più ambite dalle compagnie internazionali. Aurélien Bory le dedica la coreografia Questcequetudeviens? La Fuster racconta, attraverso il suo corpo, il sogno di diventare una danzatrice di flamenco. Lo studio, la fatica, la tenacia e il rigore del voler riuscire nel suo intento vengono rappresentati in una piccola stanza in cui si esercita quasi convulsamente, per cucire su se stessa una storia che non le appartiene ma che vorrebbe acquisire. Sulle note di una chitarra suonata dal vivo (Josè Sanchez) accompagnata dalla voce di un cantaor di flamenco ((Alberto Garcia) assistiamo alla trasformazione di un desiderio in vera e propria ossessione. Il titolo della coreografia, letteralmente da tradurre con Che cosa diventi?, è la domanda che l’uomo si pone quotidianamente di fronte ai propri bisogni e desideri. Cosa facciamo per raggiungere i nostri obiettivi? Cosa siamo disposti a diventare? Il corpo di Stéphanie racconta senza fronzoli il difficile viaggio per raggiungere il suo scopo. A mano a mano la si vede diventare sempre più brava e capace, i piedi battono veloci il tempo sul legno del palcoscenico, delimitato da una stanzetta che funge da palestra. Il suono sia in assolo che accompagnato diviene sempre più incalzante, preciso e insistente, si teme quasi che l’artista sbagli qualche passo, che si arrivi ad un intoppo. Ma tutto questo non accade: improvvisamente non c’è più il corpo, non c’è più neanche l’artista stessa ma solo il ritmo incessante dei passi eseguiti, che sembrano avere la forza di poter abbattere i muri di una scenografia che ingabbia la Fuster per un tempo infinito. La costanza premia e ormai padrona assoluta dei passi nessuno la ferma più, neanche i due elementi che Bory mette in scena come ostacolo al raggiungimento dell’obiettivo: l’aria e l’acqua. Nella piccola stanza, infatti, l’artista sembra quasi essere risucchiata dall’aria che appanna vetri e specchi, mentre imperterrita continua a tenere il ritmo con i piedi, oppure dall’acqua che non le è nemica, ma anzi l’accompagna nel ballo anche quando la fa scivolare. In un ritmo sempre più vorticoso la metamorfosi avviene, trasformando la Fuster in questi elementi stessi, ormai governati e comandati dalle sue scarpe da flamenco. Ciò che le si può leggere sul viso è lo strazio, la paura di non riuscire, la fatica del viaggio che è tanto lungo da affrontare prima di arrivare al raggiungimento del sogno. Nel ritmo incessante del “Cosa diventi?”, che martella proprio da domanda insistente qual è, anche il pubblico trasforma gli applausi in un ritmo eseguito coi piedi, ringraziando così degnamente l’artista per aver dimostrato non di certo cosa si può essere nella vita, ma di sicuro l’impegno che si può investire per diventare qualcosa o qualcuno.
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