GIULIA MURONI | La luce si solleva su un interno domestico. Fredda, illumina un anziano sul divano, ipnotizzato di fronte al televisore. Lungo tutto il fondale capeggia enigmatico il volto di Cristo, nelle fattezze del “Salvator Mundi” concepito da Antonello da Messina.
“Sul concetto di volto nel figlio di Dio” opera di Romeo Castellucci ha goduto della spiacevole concentrazione mediatica dettata da un nugolo di bagarre molto poco interessanti. Anche a Cagliari, a distanza di qualche anno dalla prima parigina al Théâtre de la Ville, c’è stato qualche sparuto tentativo di polemica, morto per inedia. Tra gli eventi di punta della programmazione 2015/2016 di Sardegna Teatro questo spettacolo ha invece trovato nelle tre serate di replica un’ottima ricezione da parte del pubblico, numeroso e partecipe.
Tra le mura del nido familiare si consuma la quotidiana tragedia di un’umanità sulla soglia del collasso. L’anziano padre si ritrova vittima del proprio corpo, sempre più inadatto alla vita e sempre meno autosufficiente, dipendente nei più elementari bisogni dalle cure del figlio. Uomo sulla quarantina, il figlio indossa la divisa del professionista in carriera, tuttavia si trova imprigionato in un ruolo di cura tanto fondamentale quanto insopportabile. Il suo amore e la sua attenzione sono distillate nei gesti e nelle parole per accudire, nei toni forzatamente lievi, nella pazienza esagerata dalle circostanze, nell’enfasi sul superfluo dentro un tentativo costante di distogliere lo sguardo dal dramma che lentamente si consuma. Non ci sono donne in questo quadro, quasi a voler acuire il peso dell’assistenza, a renderlo ancora più stridente.
È un’incontinenza imbarazzante, ripetuta e quindi parossistica a scandire l’incontro cui assistiamo. L’esplosione incontrollata di feci imbratta il vecchio e ciò che lo circonda, il figlio pulisce dagli escrementi prima con pazienza e rassegnazione, poi con crescente sgomento e infine con manifesta insofferenza. È qui che per pochi secondi si staglia una crepa sulla sua maschera efficiente, facendo emergere un’umana disperazione, presto ricomposta. Uno sconforto che aumenta in modo esponenziale con il deflagrarsi ingestibile delle feci che, incontrollato, macchia un quadro irrimediabilmente tragico, in cui la domanda sul senso diviene scottante e si riverbera fra le parole singhiozzanti del vecchio “Non è più vita questa, non sono più io”.
Tutto accade al cospetto del volto di Gesù, davanti al suo sguardo che supera la scena e invade la platea. Cala la penombra, la scena si sgombra e il fondale cristologico viene squarciato dal suo interno. La parete sul fondo viene attraversata da alcuni climber a corda doppia che sembrano assaltare l’immagine ma invece finiscono per svelarla di nuovo, dotata però di una scritta luminosa “You are not my shepherd”. Come in un detournement situazionista , l’opera d’arte decontestualizzata vive significati inediti, incalzanti.
“Dio mio perché mi hai abbandonato?” è Gesù sulla croce ad aprire alla questione della teodicea: se Dio esiste, da dove proviene il male? E se invece non esiste, da dove deriva il bene? L’imperturbabilità dello sguardo di Cristo sulla scena elude un interrogativo cocente mentre assiste impassibile nel suo ruolo di Salvatore del Mondo. Il martirio umano lentamente si dipana, brancolando nei meandri dell’insensatezza, cercando un qualunque perno esterno su cui reggersi ma trovando vaga risposta soltanto dentro le cose stesse. Tutta quell’energia rivolta verso il trascendente rimbalza indietro, nelle cose umane, si schianta nell’impatto con la materia.
La nitidezza della scena iperrealistica iniziale si capovolge in un assalto onirico per poi rarefarsi nel volto di Cristo. Romeo Castellucci firma uno spettacolo che non lascia scampo, aggredisce lo spettatore a quesiti insolubili senza graziarlo con espedienti estetici, ma anzi pungolando l’olfatto con l’acre puzza di escrementi diffusa sulla platea e la vista attraverso il ripetersi e lo spargersi dello sterco sulla scena. Un teatro che attiva i sensi della platea – non soltanto quello critico- e, scavando nelle viscere delle questioni di senso, resta avvolto in una spiritualità profonda, senziente e viva. Sul crinale tra la necessità e la resa della fede sta l’umano, sembra dirci in modo atroce e meraviglioso Castellucci.
Brava Giulia! Bella scrittura, bel pensiero. Anche se non so quanto il mondo in precipizio oggi necessiti di questo remind sulla miseria e la fragilità e l’umiliazione di perder le proprie forze e la propria dignità di umani. Forse di un moto di speranza e grazia abbiamo bisogno…..