LAURA NOVELLI | Prevede il futuro degli altri e la sua vita sembra esserle sfuggita di mano mentre guarda chi noi non vediamo: quel cugino in coma al quale si confessa con una voce sospesa tra il languore e il rimorso rancoroso attraversando ricordi così vividi da sembrare veri.
Lady Mora/Valentina Sperlì ci appare nella scena vuota della piccola sala studio del teatro Vascello come fosse un’epifania allusiva e stralunata: una ciocca di capelli bianchi, smalto acceso sulle unghie, un trench spesso scomposto e mosso da gesti improvvisi e soprattutto un viso mobile, che attraversa i mondi possibili della coscienza umana per raccontarci una storia di sempre, di voi, di noi. E’ lei la straordinaria protagonista dell’assolo “Maledetto nei secoli l’amore” ispirato all’omonimo racconto di Carlo D’Amicis (lo ha pubblicato Manni nel 2009) e rimpastato registicamente da Renata Palminiello, con luci di Emiliano Pona e impianto scenico di Tobia Ercolino, per un’attrice che ancora una volta ci regala un’appassionata prova del suo talento.
Il lavoro, che aveva già debuttato a Pistoia qualche tempo fa e ora ripreso a Roma prima di approdare a fine mese di nuovo in Toscana, fa leva su un testo e una lingua estremamente teatrali nei cui meandri si annida la vicenda di un amore maschile mai corrisposto che ora, in punto di morte, chiama a sé la sfuggente cugina per una resa dei conti dovuta e imprevedibile. Solo una sedia/poltrona dai chiari lineamenti ospedalieri e una borsa in cui rovistare alla ricerca ora di una sigaretta ora di qualcosa altro costituiscono gli appigli fisici di questo altalenante flusso di coscienza che è un viaggio alla scoperta di sé. Lady Mora parla al malato, ne osserva i sussulti, ne intercetta le sottili spinte vitali, ne intravede, illudendosi, i chiari segnali di un risveglio. In realtà ella parla a se stessa, a noi. Sembra un personaggio cechoviano chiamato a interloquire con quella sordità infinita e inesorabile che l’ha inchiodata alla necessità di una scelta e, per paradosso, di una rinascita.
Ma il pubblico si addentra dentro la narrazione poco a poco, come sulla scacchiera di un enigma che lo tira dentro sempre di più e sempre più fascinosamente. Ecco affiorare i ricordi: l’infanzia spensierata trascorsa al mare (sullo sfondo vibra un paesaggio pugliese appena percettibile), le prime offerte amorose rimandate al mittente, quella zia Lucia malata e fuori di senno. Poi il trasferimento di lui a Roma a insegnare. E Lady Mora che diventa Lady Mora: la donna che in Tv legge i pianeti, scoraggia gli amori degli altri, dice che lui non tornerà, che i mariti tradiscono puntualmente le loro mogli. Lady Mora che perde i genitori e il fratello, anelli di una catena di morti che sembrano abbattersi sulla famiglia come fulmini inarrestabili. Lady Mora sola. Lady Mora senza uomini. Lady Mora che per decenni smarrisce le tracce di quel cugino mai rassegnatosi al suo rifiuto. Poi la lettera di un notaio la invita a Roma, le rivela che lei è l’erede di quanto possiede il cugino, che lei stessa ha firmato il documento, e che a spetta l’ultima decisione di tenerlo in vita o di staccare la spina. Eccola Lady Mora nella sua inaspettata gogna dei sentimenti: legge nella vita di quel tassista spaesato che la porta a Cento Celle; entra nella casa infestata di cacca di cane del cugino, entrando in realtà nel suo nuovo presente.
Ed ora è là, la voce rotta dalla commozione – quella voce della Sperlì che è tutta azione, forza, sussulto (e ricordo ancora l’impressione che mi fece la sua interpretazione in “Molly Sweeney” di Brian Freil, con il pubblico avvolto nel buio pesto di un teatro Valle animato dal miracolo di uno spettacolo in gran parte solo udibile) – e le gambe accavallate quasi per riposare. C’è un treno che l’attende. Poi un altro e un altro ancora. Ma la sua veglia non è ancora finita. E lei resta lì. Accovacciata sulla poltrona come una bambina esausta. Resta lì come qualsiasi personaggio cechoviano. Come tante donne/personaggi/angeli dei loro morti (e mi vengono in mente le madri de “La notte di Beate” con Anna Bonaiuto, di “Vita Mia” della Dante, di “Niente più niente al mondo” con Crescenza Guardineri). Lady Mora ora legge il suo ora. E rimane in silenzio a cullare quell’uomo in procinto di andarsene. Niente Saturno e Giove da interpretare. Niente trasmissioni. Nessun cliente. Nessun futuro da perscrutare. Solo pensieri. “Penso che mi hai lasciato in mano la spina (da staccare? da conficcare meglio?), penso che adesso è tardi, che tutto questo non mi appartiene, penso che non verrò, penso che nella vita (nella tua vita) io non c’ero e che adesso (adesso) mentre non si sa se muori… A tutto questo, cugino, nel tuo letto, penso mentre muori”.