MARIA CRISTINA SERRA | In un mondo dominato dall’incertezza, in cui la percezione della sicurezza e dell’identità è garantita solo dalle costruzioni di steccati che confinano all’esterno tutte le possibili “diversità”, serve uno sguardo poetico per raccontare la verità. Se poi questa s’intreccia con la leggenda, si nutre di incantesimi raccolti intorno a focolari notturni, si misura con le vicende storiche del secolo scorso, per riportare alla luce memorie avvolte dall’oscurità, allora può nascere un grande romanzo popolare. Una volta entrati nel mondo dei “Figli del vento” e iniziato con loro “un lungo viaggio sotto le stelle dell’India e concluso tra i vigneti selvatici della Romania”, è difficile staccarsi dalle pagine del libro scritto da Sergio Pretto, “Novecento Rom”. La narrazione scorre fluida, limpida, coinvolgente; le storie di aprono e si chiudono senza confini; i personaggi sono abbozzati con la sottigliezza e la profondità, impastata di leggerezza e di sfaccettate trasparenze, che solo i veri narratori riescono a modellare. Al suo primo impegno come scrittore, l’autore arriva con un bagaglio di esperienza da giornalista economico alla RAI, di gentilezza d’animo mista al desiderio costante di volersi misurare con le vite degli altri, di spirito da eterno ragazzo e senso della sfida verso nuove avventure. Pretto ha vissuto per mesi in Romania, a stretto contatto con i Rom; ha condiviso le loro giornate e il loro cibo; è entrato nel loro sentire; ha ascoltato in silenzio i lunghi racconti e le millenarie memorie orali, incrociato voci e cercato riscontri nelle biblioteche. Poi, ha seguito l’ispirazione che gli saliva dal cuore e ha condensato tutto il prezioso materiale raccolto in un linguaggio letterario mutuato dalle suggestioni,oniriche e realistiche dalla tradizione latino-americana, per affabularci con una saga familiare che affonda le sue radici negli anni trenta e arriva ai nostri giorni.
Il libro inizia con “una ragnatela di parole”, che tessono insieme i ricordi lontani di un popolo costretto da un’antica profezia a una fuga senza fine, ai riti propiziatori intorno alla culla di Decebal, figlio di Simplon e Izvoranka, venuto alla luce nel1971 aTimisoara, in Romania, cuore zingaro d’Europa, che da lì a poco si sarebbe frantumato, disperdendosi fra le macerie “di una democrazia reclamata da migliaia di morti, una piattaforma di cemento incrostata di sangue e di segreti”. E’ con le pagine che ci trascinano nel flusso della rivolta popolare contro il regime di Ceausescu, nell’inverno del 1989, che si entra nel vivo della storia. I personaggi prendono forma in un gioco lieve di intrecci concentrici che si inanellano fra di loro, una catena di eventi dove anche le note drammatiche appaiono svuotate di dissonanze e di inutili asprezze, per elevarsi alte in una sinfonia corale perfettamente orchestrata. Le parole affiorano impastate di terra e sudore, lacrime e slanci d’amore, visioni profetiche e riti magici, piaghe sulla pelle e asprezze del dolore.
Un abbraccio carnale che mette da parte i pudori, per donarsi liberamente al lettore e spingerlo dentro i labirinti di una trama complessa, sull’onda delle emozioni, alla ricerca di immagini perdute, da riunire con un filo segreto che sciolga l’enigma per farsi metafora dell’esistenza. Le figure femminili spiccano per la complessità dei loro tratteggi e dei sentimenti che interpretano. C’è la passione verso i propri uomini, amati ogni notte in modo diverso “affinché l’abitudine non li sazi”; la nobiltà d’animo di Jonela, che chiede alla vita soltanto di esaudire i suoi sogni arditi, di essere libera di poter esplorare il futuro immaginato e troppo presto perduto, travolto dai fatti insensati della Storia; la forza e l’orgoglio di Grifina, che reprime le sue lacrime nel regno degli inferi di Auschwitz, che “non permetteva alcuna commozione e ai deboli non concedeva alcuna possibilità di vivere”. Sarà il desiderio di vendetta a sorreggerla e a tenerla in vita.
Anche nelle pagine più toccanti non c’è mai una caduta nel sentimentalismo, ma al contrario la forza del racconto nasce dalla crudezza melodiosa di un linguaggio che scava negli abissi dell’animo umano, per fare uscire bagliori di autenticità. Sono i dettagli, numerosi e descritti con minuziosa, istintiva sensibilità, a farci entrare in empatia con un mondo così lontano dal nostro, costruito su argini esistenziali e geografici ben definiti, permettendoci così di naufragare verso frontiere sconosciute, in cui il tempo avanza e retrocede e i confini sono strisce sottili che uniscono, invece di separare; dove anche l’orrore del Male lascia sul terreno i corpi dei morti, ma risparmia gli spiriti dei non-vinti.
Come un eroe epico, Ofiter, il re dei nomadi, si spinge oltre il buio delle tenebre. E’ schiacciato dalla violenza della “Notte dei cristalli” il 7 dicembre del 1941, che si abbatte in tutti i campi nomadi della regione di Craiova, “sconvolgendo il presente per distruggere il passato”. Durante la lunga marcia fra la neve, attraverso le strette gole dei Carpazi, verso l’annientamento del suo popolo “lerciume di razza inferiore”, stringendo al petto il cadavere della figlia più piccola, decide di rischiare l’impossibile per salvare la sua gente. “Dobbiamo agire”, pensò, “altrimenti si muore. Tutto il mondo prega, ma migliaia di morti sono figli della preghiera”. Fu così che dentro le tombe, scavate nella terra, insieme a chi soccombeva per la fatica e la malattia, furono nascosti donne e bambini, protetti da coperte e arbusti, sotto le croci piantate per segnare la “fragilità dei deboli”: e 2.161 anime, come per miracolo, si salvarono dai campi di concentramento.
Ogni istante del libro si schiude magicamente ad altri istanti, il sogno si incatena con la vita; sentieri imprevedibili ci sospingono a vagare attraverso l’Europa di ieri e di oggi, per scoprire labirinti sconosciuti, adagiati sull’orizzonte misterioso dell’infinito. L’inquietudine, la nostalgia, la dolcezza, il desiderio, il rimpianto, la paura, l’orgoglio, il coraggio, si rincorrono nell’universo rom, escono dalle pagine del libro per aiutarci a vedere le cose per come sono realmente, lasciandole fluire liberamente, oltre il rosa dei tramonti, per entrare nel fango delle periferie grigie. E allora si può meglio comprendere il significato del perché “la storia del mondo era stata percepita dagli zingari come un cerchio, in cui la fine coincideva inevitabilmente con l’inizio…sapendo che per cercare il futuro, bisogna andare verso l’ignoto oscuro, attraverso ciò che è ancora più oscuro e ignoto”.
Un’intervista all’autore in due parti su Radio Ies
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