MARIA CRISTINA SERRA | I “mitici” Anni ’60, dopo aver rimosso il Ventennio fascista, segnarono il passaggio da un’epoca tragica a quella inebriante del “miracolo economico” con le sue ventate di novità creative. Arte, letteratura, cinema divennero gli spazi mentali e reali di elaborazione e confronto di una società in rapida trasformazione sociale e culturale. Il cinema, soprattutto, sospeso in una dimensione poetica e di narrazione, appariva agli occhi del giovane Claude Nori (figlio di ristoratori italiani emigrati a Toulouse) un linguaggio complesso e immediato, ideale per rintracciare il filo della propria memoria. “Mi avvicinai alla fotografia, desiderando inizialmente di diventare cineasta”, racconta: “Guardando l’Avventura di Antonioni, rimasi stordito, stupefatto davanti ai primi piani di Monica Vitti. Cinque o dieci secondi che mi parvero interminabili, tanto da desiderare che potessero durare tutta una vita”. Un fermo-immagine che determinerà una scelta di vita, un modo di rapportarsi alla realtà. Una ricerca dell’istante in cui tutto può modificarsi restando sulla porta, a giusta distanza. “La fotografia mi obbliga ad un atto nello stesso tempo psichico e sentimentale”, spiega, “una sorta di nomadismo romantico che mi spinge ad addentrarmi in territori sconosciuti, dove spero di ritrovarmi innamorato”.
La mostra alla MEP, “Claude Nori – editore e fotografo” (fino al 4 novembre) ripercorre le tappe della vita e della carriera di questo maestro dell’immagine, scrittore ed editore sempre controvento, che ha contribuito in modo sostanziale a far conoscere artisti estranei ai circuiti commerciali e a mantenere viva l’attenzione sui grandi come Robert Doisneau, Willy Ronis, Sabine Weiss. Si ha subito la sensazione di inoltrarsi in un viaggio sentimentale attraverso strade incontaminate dall’incertezza del nostro presente, che raccontano di estati infinite, flirt bruciati in leggerezza, paesaggi urbani mutevoli e indefiniti, giardini segreti dove incrociare fuggevoli sguardi in solitari silenzi.
Rincorrendo un’idea di felicità malinconica, Nori negli anni’70 (in una stagione di vivace sperimentazione) inizia a ritagliarsi una nicchia originale, “situata fra il romanticismo alla francese, sullo stile di Truffaut, e un lirismo tipicamente italiano”. Non mancano i riferimenti alla fotografia americana, a Gary Winogrand, che afferra la realtà urbana e la rivisita con dissacrante ironia, e a Lee Friedlander, che la copre di inedite sovrapposizioni. Ma i tratti di Nori sono più sfumati, le ombre notturne si schiudono sempre in racconti, i suoi dettagli si incastonano nella composizione senza discordanze. Determinante fu nel ’74 l’incontro con Edourard Boubat, poeta del “niente che possiede la fecondità dell’infinito”, geniale nel far filtrare l’imprevisto mentre elimina il superfluo. In sintonia con lui, anche per Nori fondamentale è avvertire il “coup de foudre” e lasciarlo entrare senza mediazioni nell’obiettivo per ritrasmettere così le emozioni ricevute.
Con questa sensazione ci lasciamo condurre in sorprendenti “Etés italiens”, ricche di incantesimi, prive di retoriche celebrazioni, distanti dalle delusioni del nostro scontento. E’ l’estate il fil rouge che lega i ritratti, i paesaggi e i sogni fra di loro. Sono le spiagge le grandi protagoniste, dalla Liguria all’Emilia Romagna fino alla Campania e alla Sicilia. Ricordi di vita, profumi di vacanze a bordo di una vecchia SIMCA 1000 di famiglia, di pizze, di falò sulla sabbia, di pigre soste ai caffè, di pensioncine. Con la colonna sonora di “Sapore di sale” e “Gocce di mare” in sottofondo, scorrono le immagini dei filmini in Super8, come pagine vissute di un diario intimo, una “foto-biografia” traslata, che esce dai confini per raccontare le tante contraddizioni di un paese che viveva di speranze. Alle pareti soprattutto foto di giovani donne, attimi e sorrisi di felicità colti al volo, sullo sfondo di fatiscenti cementificazioni a spezzare il paesaggio e l’idillio; a volte la muraglia di stabilimenti balneari a far da scenografia o i “muretti” dei lungomari a contenere la sete di libertà, raffigurata da una ragazza in Vespa, con la gonna sollevata. Compongono strani grovigli di nuvole le reti da pesca sulle barche a Stromboli. Nella notte nebbiosa, fra la boscaglia di un promontorio vicino Ancona, i fari di una macchina illuminano un sentiero che può portare in ogni luogo. “Les amants du Po” si stagliano, ombre fra le ombre sull’argine del fiume, nella luce irreale e nel silenzio ovattato di infinita dolcezza.
Sono tangibili le suggestioni e le reminiscenze col “Novecento” di Bertolucci, affresco grandioso della nostra Storia. Anche la foto del “Bacio a Portofino”, dal contrasto e dal taglio deciso, sembra sottintendere una sceneggiatura dall’imprevedibile svolgimento. Il linguaggio fotografico di Nori si sviluppa simile ad una pellicola in cui il fantastico e il reale si rincorrono incessantemente. Si avverte il suo amore per la vita e il suo impegno costante contro la banalizzazione e l’omologazione di un mestiere, che rischia ormai di confondere le ragioni dell’arte con quelle del mercato.
La seconda parte dell’expo è una testimonianza del suo lavoro da editore coraggioso e preveggente, con la rivista “Contrejour” e poi con “Cinéma International”, con le monografie dei “Grandi”, l’ideazione di mostre e festival come “Terre d’images à Biarriz”.
Accanto agli “umanisti” tanto amati, il mosaico della sua storia della fotografia si completa con i tasselli degli artisti che hanno stretto con lui un intenso rapporto. C’è l’immaginario potente e tragico di Sebastiao Salgado, la grazia raffinata e il rigoroso equilibrio formale di Martine Franck, le prospettive infinite e gli enigmi del cuore di Luigi Ghirri (quando ancora nessuno si accorgeva di lui), gli schizzi estrosi di Pierre et Gilles, l’ironia di Enzo Sellerio, il “non tempo” melodioso di Bernard Plossu, lo sguardo neorealista di Ferdinando Scianna.
E’ un navigare per mari lontani, un dialogo serrato tra foto, letteratura, cinema e architettura, che si arresta solo davanti alla preziosa proiezione della prima puntata (1979) di “Apostrophes” (storico programma di cultura condotto da Bernard Pivot). Protagonisti del dibattito sui tanti significati del fotografare erano R. Doisneau, M. Riboud, H. Newton, H. Silvester, oltre a Nori e ad una meravigliosa Susan Sontag, intenta a spiegare i facili inganni dell’occhio e della mente, di come “una certa consuetudine con l’atrocità possa rendere normale l’orribile o la miseria, rendendola familiare, remota, inevitabile”. Di come sia sempre “fragile il contenuto etico della fotografia” e appaiano “vicine, immediate le cose esotiche; e piccole, astratte, remote, le cose familiari”. Tutto è sempre speculare al suo opposto e allora è chiaro il messaggio di Nori: “Fotografare la felicità è davvero difficile, più complicato che fotografare la miseria o la tragedia. E’ qualcosa di impalpabile, perché è una bolla di sapone, che scivola fra le mani, difficile da acchiappare”.
Collegamento ad Apostrophes con Nori e Sontag
http://www.ina.fr/art-et-culture/litterature/video/CPB79052982/le-monde-de-la-photographie.fr.html
Un video sulla mostra curato da HLGfilms
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=fbV5X0FErs0]