RENZO FRANCABANDERA | E comunque. La settimana scorsa a Milano potevo andare a vedere uno spettacolo di Steven Berkoff, grande autore del teatro contemporaneo anglosassone, rivisitatore dei miti del classico, interpretato da lui in persona. E invece sono andato a vedere al Teatro Litta, Angelica, di Andrea Cosentino, uno dei suoi primi spettacoli, scritto nel 2005, interpretato sempre da lui medesimo in persona.
Alla fine non ho maturato una sensazione di pentimento per la mia scelta, innanzitutto perché Angelica incorpora una serie di riflessioni tutt’altro che banali sulla semantica del medium scenico, e su come questo si vada sempre più modificando grazie a tempi e modi di cinema e televisione. In secondo luogo perché è un monologo divertente, fresco, dove universo intellettualistico e piacere del racconto sono calibrati in modo giusto.
Il pre-testo è una riflessione di Pasolini circa la differenza fra piano sequenza e montaggio nel cinema. Mentre il piano sequenza è descrizione, presa diretta del vissuto senza cesure, analisi finanche prolissa ma pur sempre analisi, il montaggio è operazione di riduzione all’essenziale. Lo scarto geniale nel pensiero pasoliniano è in una breve ma densissima similitudine a margine del pamphlet, in cui paragona il piano sequenza alla vita, e il montaggio alla morte che seleziona, riduce l’esperienza del vissuto a poche, salienti immagini, prima di consegnarle alla Storia, procedendo ad una sorta di imbalsamazione dell’emotività, che ovviamente in questo “trapasso” si perde.
Lo spettatore ovviamente non assiste a nessuna tirata epistemologica nel corso dello spettacolo, perché tutto il postulato viene dimostrato raccontando due storie, una attraverso il mezzo teatro, con un dettaglio da piano sequenza, e una attraverso il mezzo televisivo.
Si tratta di alcune scene di uno sceneggiato di basso cabotaggio, girato in un interno romano. Nel mondo teatro assistiamo a tutto quello che a queste riprese fa da contorno, con tutte le figure che popolano l’universo delle riprese, gli attori, le loro emozioni laterali, i mille ciak per ottenere quei pochi minuti di riprese tv, che ovviamente fanno perdere molta, quasi tutta l’umanità del girato. Questo spiega parecchio della tecnica cinematografica di Pasolini, fatta di lunghe panoramiche ambientali, piani sequenza, e dettagli di un vissuto, di sguardi di dentro ma anche di/da fuori. Ma anche molto del lavoro di Cosentino che, pur essendo fatto, a suo modo (e questa è la grande ma d’altronde inevitabile aporia del linguaggio inteso come scelta, in senso assoluto) di scene e sequenze narrative montate in sequenza fra loro, cerca di restituire quella pluralità di sguardi interni, esterni, voci a margine, che ricordano nella loro struttura, quella tecnica cinematografica, contrapposta a quella più sterile e banale del medium televisivo.
Nostalgicamente potremmo riflettere su quanto perdiamo passando dall’analisi alla sintesi, dalla vita alla morte, è però altrettanto certo che nessun elemento esiste di per sé senza il postulato della sua negazione. Tutti i linguaggi, dai primordi della scienza a quelli della filosofia, ci ricordano che l’Essere è, il non Essere non è, che un punto, una retta e un piano sono.
Come tutto questo possa passare attraverso una passeggiata per Roma in un anno santo, con tanto di vista sulla papa mobile di Woityla con lui medesimo in persona che ci benedice apparendo di colpo in scena, uno spettacolo da realizzare in una cantina, due vecchie parrucche, due barbie, due miniature di plastica, un vestito da sposa e una carrozzina, è quanto spiegherà Cosentino.
E comunque. Angelica, forse perché all’epoca Cosentino era non meno ardito di quanto sia ora, ma forse in scena osava riflessioni meno strutturalmente complesse sulla decostruzione del linguaggio scenico, è uno spettacolo godibilissimo, appuntito nel suo portarci verso una comprensione alta ma al contempo semplice del postulato semantico in discussione. Di Angelica lo spettatore tiene a mente molte cose, anche a diversi giorni di distanza. E’ uno spettacolo che, dunque, a suo modo, favorisce la ritenzione. Si lascia ricordare. E questo è un motivo non banale per andarlo a vedere, con un Cosentino che con la maturità interpretativa di ora, torna su quello che era allora, si confronta con tutto quello che è stato finora (fino alla recente rilettura assai decostruita e forse intimamente meno lineare di Fedra, che è stata ospitata sempre al Litta) e da dentro una scatola televisiva, quasi come un gestaccio, ci benedice.
Ecco un video dello spettacolo
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