ELENA SCOLARI | L’artigianato teatrale del Carretto (Lucca) è uno dei più alti esempi italiani di capacità “costruttiva” scenografica e arte creativa al servizio del palcoscenico.
Iliade è uno spettacolo del 1988, viene rimesso in scena 25 anni dopo con nuovi attori, noi lo vediamo (per la prima volta) nel bel Teatro Sociale di Bergamo, in città alta, nella sezione Altri percorsi della stagione di prosa. E rimaniamo affascinati da una macchina complessa e articolata ma al tempo stesso solida, come sono solidi i classici.
Questa fabbrica del teatro è a vista, lo spettatore è davanti ad una scena dove tiri, ingranaggi, carrucole, meccanismi sono svelati, appositamente non celati: gli elementi che compongono le scene del racconto vengono montati in un continuo lavorìo rappresentativo incastrandosi l’uno nell’altro come i fatti concatenati e ineluttabili.
Lo spettacolo è costruito per quadri, ventidue riduzioni dei ventiquattro libri che formano l’Iliade (a cura di Maria Grazia Cipriani, anche regista): l’ultimo anno della guerra di Troia dal ratto di Briseide, schiava prediletta di Achille, fino al tragico scontro tra quest’ultimo ed Ettore, seguìto dal pianto di sua moglie/vedova Andromaca, tratto dalle Troiane di Euripide. Il testo in versi è declamato da una voce fuori scena, gli attori “illustrano” e rappresentano ciò che la voce pronuncia, come fosse la voce degli dèi che vedono realizzare i propri disegni.
L’andamento è regolare e flemmatico, dilatato come per desiderio di rendere immortale ogni frangente tramite un incedere epico. Si tocca qualche momento di lentezza un po’ faticosa, ampiamente riscattato dalla meraviglia degli artifici. Citiamo quelli più sorprendenti: la parete di legno grande quasi quanto l’intero spazio scenico nella quale improvvisamente si aprono sedici finestre dentro cui appaiono altrettante marionette illuminate, il concilio degli dèi bambini, ognuno nel suo divino scomparto; le teste giganti di leone e toro (Ettore e Achille), indossate da due attori, quando il semidio greco uccide il troiano polvere rossa si rovescia dalle fauci del leone; due binari sui quali due prue di navi sono spinte e tirate da funi (sempre a vista) per il combattimento in mare; busti indossati in vita come guerrieri doppi; e naturalmente il cavallo di Troia.
Gli attori – veri – sono tutti maschi, e maschio è l’impianto dello spettacolo, i pochi personaggi femminili (dee a parte sono tutte madri, sorelle, mogli che assistono impotenti alle morti dei loro uomini) sono resi con pupazzi, più fragili ma anche impossibili da distruggere, nella loro esplicita artificialità. Invece gli uomini sudano, faticano, spingono, tirano, remano, combattono, feriscono, lottano e muoiono. Virilmente. La macchina teatrale in movimento sotto i nostri occhi (opera di Graziano Gregori) è curatissima, regale nella sua monumentalità, fatta di materiali forti (legno, corde), che non hanno niente di femminile. Gli oggetti di guerra si impongono con risolutezza, senza lasciare possibilità di opporsi: così deve andare, non c’è niente da fare.
Il poema di Omero è qui reso in tutta la sua durezza e rozzezza, le suggestioni estetiche sono ben lontane dai completini blu (Calvin) Klein del Troy cinematografico con Brad Pitt e Eric Bana, sempre appena usciti dal salone del coiffeur.
L’attenzione spinta, continua, all’immagine, però, nello spettacolo cristallizza le situazioni e le fissa eliminando l’aspetto di immedesimazione, o di compartecipazione. Tutto è talmente esemplare da non permettere allo spettatore di prendere parte (emotiva) alla vicenda. Non c’è un tallone d’Achille.
E ira funesta sia.
Adattamento e regia Maria Grazia Cipriani
Scene e costumi Graziano Gregori
Suoni Hubert Wetskemper
Luci Gianni Pollini