IRIS BASILICATA | In scena degli ominidi dall’aria neutra cuociono delle salsicce appese a delle canne da pesca in un mare composto da una griglia rovente. L’odore di carne cotta impregna i vestiti e i capelli quasi come se si volesse lasciare un marchio della messa in scena.
Il silenzio assoluto della scena durante la cottura viene distrutto dall’arrivo di Padre Ubu e Madre Ubu. L’Ubu roi di Alfred Jarry è un’ironica ed aspra critica alle caste forti, all’avidità del potere che rende l’uomo sempre più desideroso di fama portandolo, inevitabilmente, alla sua stessa distruzione. Roberto Latini riscopre il classico del 1896 che ha segnato la nascita del teatro moderno (dalla prima battuta innovativa Merdre!) affermando che il lavoro intorno ai testi classici è un’occasione, una grammatica con le quali si può scrivere il teatro contemporaneo. In questo spettacolo il mondo virtuale dei computer, abbondantemente utilizzato da Latini in passate rappresentazioni, scompare per far spazio a quello fasullo delle maschere.
A bordo di una bicicletta bianca guidata in circolo da Latini travestito da un Pinocchio che ricorda quello di Carmelo Bene resta ospite e osservatore di ciò che accade, facendo da collante tra una scena e l’altra.
In una improbabile Polonia Madre Ubu come Lady Macbeth spinge il marito ad uccidere il re. Un amore malato e sottomesso si contrappone alla danza di due orsi che fanno capolino in scena rappresentando invece il lato più puro del sentimento amoroso. Il capitano dei dragoni di nome Padre Ubu, spinto dalla moglie ad uccidere il re Venceslao, finisce per costruirsi a sua insaputa una gabbia mascherata da piena libertà: il potere, meta ambita da raggiungere, finisce per incatenare lo stesso Ubu.
Partecipa alla missione sanguinaria il Capitano Bordure dalle sembianze di un gallo all’apparenza valoroso è simbolo di superbia, proprio come dice il detto ardito il gallo sopra il suo letame. Si trova nella scomoda posizione di aiutare il capitano dei dragoni a conquistare il trono per poi confessare tutto come un pulcino innocente.
Numerosi gli elementi che richiamano al mondo circense, mondo della finzione in cui tutto può accadere senza mai cambiare sul serio: la corona tanto agognata è un megafono, i nobili sono si cimentano in capitomboli, i colpi inflitti al re Venceslao sono dei palloncini colorati che scoppiano con la punta di un ago, il trono conteso è una carriola che avrà sempre bisogno dell’aiuto di qualche servo per essere spinta. Pinocchio osserva la scena senza mai disturbarla ma anzi accompagnandola con rimandi a La tempesta, Amleto, Giulio Cesare, Romeo e Giulietta, Macbeth. Latini si cimenta in una danza infernale cinto al collo da una catena che lo lega ad uno scheletro nero, quello di Padre Ubu, che più potere acquisisce, più povero d’animo diventa. Questo elemento collante, alter ego del capitano dei dragoni, racchiude in sé una molteplicità di sensazioni: invidia, avarizia, gelosia, ma anche smarrimento, timore, paura.
Gli ominidi vestiti come la principessa Leila di Star Wars sono completamente asserviti a Padre e Madre Ubu. Senza il potere della parola si limitano ad obbedire ai comandi che gli vengono dati per una dura legge di servo-padrone.
Latini come Jarry accompagna Padre Ubu in tappe di incatenamento attraverso un teatro dell’assurdo. I coniugi Ubu, punto di non ritorno e di abbandono del teatro borghese si avvalgono di nuove modalità di relazione tra testo e scena. Ciro Masella straordinario interprete di Madre Ubu, è la donna forte, calcolatrice, la Lady Macbeth francese che si esibisce in numerosi richiami, o meglio dire omaggi, a Leo de Berardinis e a Carmelo Bene, ma è anche la tentazione, la porta aperta dell’uomo verso una possibilità di elevazione fasulla da una condizione mediocre. Padre Ubu interpretato da Francesco Pennacchia è un uomo vile ridotto a semplice marionetta da muovere, un soldato della serie “armiamoci e partite”, gli altri personaggi sono rinchiusi all’interno di cornici come se fossero quadri viventi. Rotta la cornice e ucciso il re, l’uomo non è più al sicuro all’interno dei propri confini ma viene gettato nella confusione matematicamente prevista dalla regia.
Nell’ultima scena gli attori sono disposti quasi come su una nave che naviga calma le acque della coscienza. Ne fa da polena Pinocchio, marionetta come Padre Ubu ma ormai finalmente libero, emblema della bugia ma anche dell’innocenza bambinesca che viene restituita al pubblico dopo essere stato messo in crisi dall’assenza del linguaggio teatrale ordinario.
Si ritorna a casa su quelle chiare acque in cui Roberto Latini con l’utilizzo di un microfono che amplifica oltre che la voce soprattutto il silenzio, ti chiede “tienimi e credimi”. Usalo e fanne la tua storia.