RENZO FRANCABANDERA | La rilettura che Luca Ronconi ha fornito l’anno scorso del classico di Ibsen “Casa di bambola” ha proprio in questi giorni ripreso la sua tournèe che porterà lo spettacolo a metà febbraio a tornare al Piccolo Teatro di Milano, mentre la settimana passata ha fatto registrare praticamente il tutto esaurito al Donizetti di Bergamo, programmata all’interno di una stagione ricca, che proprio oggi ospita “La belle joyeuse” con Anna Bonaiuto.
Prodotta dallo Stabile di Genova e poi in scena al Teatro Strehler dal 14 al 26 febbraio 2012, la pièce si poggia sull’idea di far vivere allo spettatore la sensazione delle prove di uno spettacolo, dove la drammaturgia non ha sempre un esito lineare ma viene interrotta, ripresa, alterata, in un frammentato gioco di sequenze. La seconda idea portante è l’affidare all’interprete principale, Mariangela Melato, la possibilità di “incarnare” il femminile ibseniano a tutto tondo: nel ritorno dell’attrice alla collaborazione con Luca Ronconi alla stessa è attribuito il compito assai teatrale di
sdoppiarsi e dar corpo ai personaggi femminili di Nora e di Kristine Linde, l’amica di Nora. In una logica scenica che potremmo definire con un termine moderno, speriamo icastico, di “avatar” scenico, alle altre attrici Barbara Moselli (Nora) e Orietta Notari (Kristine) viene chiesto di dare materia ai due personaggi, che poi di volta in volta verranno, con uno sdoppiamento di identità soggettiva fra persona e personaggio, ripresi su di sé da Mariangela Melato, che dopo alcune battute pronunciate dall’alter ego, ne prosegue l’interpretazione.
Un gioco in cui l’attrice, vestita in abiti moderni, prende il posto del proprio avatar ottocentesco, in un tentativo chiaro di riportare l’azione scenica e il suo epistemologico doppio binario fra significante e significato in avanti con le lancette, per approfondire la modernità di questo dramma che comunque, a distanza di oltre un secolo, continua ad essere tagliente e vivo. Quale morale è quella più vera, più alta? Quella delle necessità familiari e del tutto è bene quel che si mette a tacere, o quella della moglie del direttore di banca Thorvald Helmer (Luciano Roman, che ha preso il posto di Paolo Pierobon), che quasi la reclude in un universo immutabile di borghesissime dolcezze familiari, finchè un dipendente del marito (Riccardo Bini), che aveva prestato alla donna una somma anni prima all’insaputa ma proprio a beneficio del marito, non mette sotto scacco queste certezze, ricattando la donna pur di non essere licenziato da Thorvald? Come è noto, infatti, l’esito tragico non è infatti nel conflitto principale del plot, quello fra il marito e il dipendente senza scrupoli, ma quello che, proprio in subordine alle scelte del marito, si aprirà fra lui e la moglie, portando la donna alla scelta non convenzionale per quel tempo ma in realtà anche per il nostro di abbandonare di punto in bianco marito e figli, non potendo più reggere il peso dell’ipocrisia.
Ronconi nella deframmentazione drammaturgica che viene studiata per questo spettacolo, ripropone non solo questo finale (del 1879), ma anche quello che dovette pensare per le repliche in Germania, dove la contestazione e la polemica furono così forti (e anche da questo punto di vista duole rilevare che gli anni, anzi i secoli passano senza che il rapporto fra arte e morale si modifichino…) da costringere Ibsen ad un esito più tranquillizzante per la morale pubblica, in cui Nora non abbandona la sua casetta di bambole. La scena, studiata da Margherita Palli, estranea totalmente la pièce dall’ambiente teatro, portando le prove in una sorta di freddo garage illuminato da lampade alogene. Pochi oggetti di scena, semoventi, ed una pedana girevole che sembra voler alludere a come i punti di vista possano cambiare, a seconda di come si guardano i fatti. E’ comunque, almeno nella prima mezz’ora, davvero una prova teatrale, con gli attori che si suggeriscono battute, che le porgono in forma anonima e distaccata, in molti casi senza enfasi, in fretta, entrando e uscendo dal palcoscenico con la stessa facilità con cui entrano ed escono dai personaggi.
Forse non c’è Brecht (su cui pure Ronconi è in procinto di tornare con S. Giovanna dei Macelli), ma di certo l’intento è creare una sorta di separè emotivo fra pubblico e scena, ricorrendo appunto ad un recitato non recitato, ad una frammentazione drammaturgica e al continuo ricorso all’avatar del personaggio. Queste scelte connotano in particolare la prima parte dello spettacolo, si diceva, mentre nel seguito questa scelta viene poi nella sostanza accantonata per mantenere alto il respiro e la tensione dell’opera di Ibsen. Così se la prima parte risulta straniante e fredda, la seconda è capace di recuperare tutta la tensione e il pathos, come un giocatore che sonnecchia per tutto l’incontro e poi, quando arriva il momento chiave, sfodera le giocate necessarie alla vittoria. Inutile dunque chiedersi il profondissimo perché di questa scelta registica che con l’andare dello spettacolo risulta poi quasi staccata e supplementare al seguito, perché alla fine l’esito è vincente, e riesce a restituirci un universo di emozioni, in buona parte affidato alla cifra recitativa di Mariangela Melato, che non a caso ha fruttato all’attrice l’Ubu 2011.
Un video promo dello spettacolo
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