RENZO FRANCABANDERA | Ci sono spettacoli che non andrebbero visti. Alcuni perché così brutti da incorporare idee sciatte e approssimative di chi è in scena e ancor prima di chi, a dirigerle, non ha avuto un’idea sufficientemente forte per portare quelle persone in scena. Di converso ce ne sono altri che non andrebbero visti perché l’idea scenica è così limpida, netta, emozionante in ogni aspetto della costruzione, che quando si esce di sala si ha quasi la sensazione di essere un po’ stati marchiati a vita, di aver avuto una sorta di imprinting di uno sguardo sulla parola che resterà indelebile.
Di quasi dieci anni successiva ad Otello (1603), The Winter’s Tale (1611) è certamente tra le maggiori opere di Shakespeare anche se il delirio paranoico del re Leonte, immaginario regnante di stanza in Sicilia, certamente non ha avuto la stessa fortuna di quella del Moro. Eppure non mancano gli ingredienti di complessità di struttura dell’opera, che anzi, riprendono la rottura di tempo e spazio che era stata di Lear, o del Macbeth.
A dirigerne l’allestimento ospitato per alcuni giorni al Piccolo Teatro di Milano Declan Donnellan con la compagnia Cheek by Joel, fondata da lui e da e Nick Ormerod nel 1981 e che da allora ha all’attivo un incredibile numero di successi e di fatto un’unica ininterrotta tournée internazionale che da allora ha toccato 50 paesi e 380 città. In questo tempo riconoscimenti di ogni genere e per tre volte il Laurence Olivier Awards, un’Oscar praticamente.
Donnellan torna su The Winter’s Tale dopo quasi 10 anni. Allora era stato il Maly Drama Theatre di San Pietroburgo a produrre, per una creazione che fu insignita del Golden Mask Award. Anche questa era una grande coproduzione internazionale di cui il Piccolo Teatro è stato copartecipe.
D’altronde il legame di Donnellan con il Piccolo è continuo e negli ultimi anni 10 anni questa è la terza volta che i suoi attori calcano il grande palcoscenico della sala Strehler, dopo il Cymbeline (2007) e e il Macbeth (2010). Per il quattrocentesimo anniversario della morte di Shakespeare il regista decide di tornare dopo poco meno di un decennio su The Winter’s Tale (Racconto d’inverno), quasi che ci fosse un conto in sospeso per una sorta di distillazione di idee ultimativa.
La scena disegnata dal suo sodale Nick Ormerod è vuota, eccezion fatta per una grande scatola bianca di legno sul fondo della scena, un parallelepipedo rettangolare bianco che nel corso dello spettacolo avrà diverse funzioni come luogo del passaggio, dell’altrove. Fra il fronte scena e il fondo una panca di legno, sempre bianca, su cui si avvia lo spettacolo. La vicenda come noto è quella della gelosia del re Leonte che immaginando una inesistente relazione fra sua moglie Eroine (che è incinta e aspetta una bambina) e del suo amico Polissene, regnante di Boemia, condanna questi a morte e la prima alla prigione. Polissene riuscirà a fuggire con l’aiuto dei servi Leonte stesso, e di qui in poi una serie di sciagure si abbatte sul re, che in breve tempo si trova solo. Sarà per volontà del fato che si arriva ad un finale in parte felice, a differenza di Otello, ma che comunque non toglie il sapore di un testo acre, capace davvero di abissi di freddezza quasi lapidaria.
I giovani interpreti che compiono l’impresa di questo allestimento in cui il vuoto è elemento centrale sono davvero incredibili: non è possibile menzionare tutto il gruppo ma certamente non possiamo non nominare Orlando James (Leonte), Edward Sayer (Polissene), Natalie Radmall-Quirke (Ermione). Quanto più si arriva a percepire l’intenso vuoto scenico e il quasi nulla di artifici che lo abitano, tanto più intensa si fa la dimensione di intervento registico in cui gli attori agiscono e si allarga via via verso un immaginario che abita completamente la dimensione interrotta spazio-temporale in cui Shakespeare ambientò questa storia.
“Mentre vaghiamo da una corte a una nazione, dall’alto della tragedia al basso della commedia, in un arco di tempo di quattordici anni”, per dirla con il regista, sul palcoscenico si compie un’azione di raffinata completezza sia coreografica che emotiva, dove anche qualche piccolo inserto un po’ disallineato rispetto a questa scelta di pulizia, come un piccolo video a fine primo atto con l’arrivo dell’orso che sbrana l’emissario del re, o la festa di paese di inizio secondo atto in Boemia, di tratto più carnascialesco contemporaneo, finisce per sembrare tutto sommato spiegabile nella logica della tradizione: a parte questi due episodi, infatti, il secondo dei quali non è comunque estraneo alla prassi di rilettura contemporanea di Shakespeare, il cui sentimento è ulteriormente sostenuto dalla scelta dei costumi eleganti ma al modo d’oggi, il tutto scivola via con un grandissimo rigore coreografico, tanto che il tempo della recita, che si approssima alle quasi tre ore, scivola via come se si stesse ascoltando per la prima volta la storia. E’ tipico questo dei grandi, raccontarti una cosa che già sai come se non l’avessi mai sentita prima, quasi se ne stia per svelare un mistero mai rivelato prima.
The Winter’s Tale
di William Shakespeare
regia Declan Donnellan
scene Nick Ormerod
luci Judith Greenwood
musiche Paddy Cunneen
con , Joy Richardson (Paulina / Mopsa), Grace Andrews (Emilia / Time), Abubakar Salim (Camillo), Ryan Donaldson (Autolycus), Chris Gordon (Florizel), Peter Moreton (Old Shepherd / Antigonus), Sam McArdle (Young Shepherd), Joseph Black (Cleomenes), Guy Hughes (Dion / Live Music Coordinator), Tom Cawte (Mamillius)
produzione Cheek by Jowl
in coproduzione con the Barbican Theatre; Les Gémeaux/Sceaux/Scène Nationale; Grand Théâtre de Luxembourg; Chicago Shakespeare Theater; Centro Dramático Nacional, Madrid (INAEM)