RENZO FRANCABANDERA | Sono due giorni nella vita di una donna ma sembrano una vita.
In undici quadri, seguiamo la quarantunenne Harper Regan (Elena Russo Arman), e i nove personaggi che popolano la vicenda, in un seguirsi rapidissimo di fatti che vanno dal familiare, al lavorativo al personale: la donna, sapendo della prossima morte del padre decide di volerlo incontrare per l’ultima volta, ma il suo datore di lavoro non le permette le ferie. Abbandona allora improvvisamente il posto di lavoro, e a seguire il marito e la figlia adolescente per andare a trovare un’ultima volta il genitore morente. Il viaggio di andata e ritorno di soli due giorni, dai sobborghi di Londra verso Manchester, diventa un percorso di iniziazione, di presa di coscienza delle questioni che la donna ha voluto rimuovere o silenziare nella sua coscienza, quell’insieme di fatti che più o meno tutti facciamo finta di non voler vedere, sentire, capire. Sono i nodi irrisolti, le difficoltà, l’incapacità di prendere decisioni sia personali che famigliari.
Il testo di Simon Stephens nella traduzione di Lucio De Capitani e con la regia di Elio De Capitani è la maggiore produzione dell’Elfo di questa seconda parte di stagione prima dell’arrivo a maggio del più classico dei classici cecoviani, Il giardino dei ciliegi. In fondo questa circostanza che avvicina i due lavori solo in calendario racconta involontariamente il modo in cui gli Elfi si sono mossi nell’ultimo ventennio e forse anche più, alternando classico e contemporaneo in una prassi scenica che arricchiva i toni dell’uno con l’esperienza dell’altro.
In questo alternare, anche Harper Reagan sembra un po’ un classico e, soprattutto con riguardo al finale, in linea con le atmosfere letterarie russe di Cechov, dove l’iniziazione avviene, sconvolge ma per lasciare poi tutto com’era, come in Vanja, ad esempio.
Carlo Sala che collabora con il teatro dell’Elfo dai tempi di Angels in America, conferma la sua abilità nel creare spazi che conferiscono l’impressione di essere allo stesso tempo interni ed esterni, agibili attraverso piccole modularità in movimento, di cui si occupano gli stessi attori in veloci cambi scena. Anche i costumi sono dell’artista. Delle luci di Nando Frigerio inutile sottolineare per l’ennesima volta la precisione poetica, capace di abbacinare di bianco e di soffondere in notturni di periferia di particolare potenza. Il gruppo, composto da una compagine anagraficamente molto eterogenea e che comprende oltre alla Russo Arman, Cristina Crippa (la madre di Harper), Camilla Semino Favro (la figlia, l’infermiera), Marco Bonarie (giovane di periferia e altri personaggi), Cristian Giammarini (il marito, un amante), Francesco Acquaroli (datore di lavoro, amico di famiglia), Martin Chishimba (giovane amante), si comporta in modo omogeneo e coerente rispetto ad un dettato registico abbastanza netto, che va nella direzione di creare una vicenda corale da un plot che altrimenti potrebbe essere letto quasi come un monologo concettuale. E invece è proprio il contorno di figure a rendere il testo particolarmente interessante. L’intenzione di De Capitani è quella di fare di Harper Reagan, un testo che ha quasi otto anni, l’affresco di un tempo, tentazione un po’ sempre presente nella scelta delle drammaturgie contemporanee da parte del regista. E nelle settimane in cui Internazionale dedica la copertina all’app Tinder, che aiuterebbe a trovare in modo facile relazioni fisiche leggere e disinvolte, seguiamo la Regan in amori di una notte, o di un pomeriggio, in un processo di liberazione del suo karma di madre noiosa e schiacciata dal senso del dovere, verso una dinamica personale e caratteriale nuova.
Il testo invero lascia il dubbio che il processo poi arrivi davvero ad un qualche compimento rivoluzionario, anche perché in fondo la protagonista alla fine sceglie il quieto vivere familiare, l’unione con un marito di cui sospetta le pulsioni pedofile, un finale, quindi, triste e a suo modo cecoviano di persone che non scelgono. Ci sembra qui un po’ pleonastica l’insistenza della regia sulla maschera della tristezza lacrimevole, che i personaggi indossano in un finale che già di suo ha un carico di grottesca sospensione acida. Diciamo che, anche senza occhi lucidi a fissare la sala negli ultimi secondi di scena, capivamo lo stesso.
Belle le interpretazioni femminili, grandissima la Russo Arman per tutta la recita, ma di particolare rotondità anche la prova della Semino Favro, che mostra, ancora una volta, un talento spiccato ed una capacità di reggere e leggere ruoli molto diversi fra loro, donando atmosfere suggestive alle scene che la vedono interprete. Le figure maschili in questo testo sono, loro malgrado, un po’ delle grucce a cui le donne si aggrappano per potersi mostrare con più limpidezza a se stesse.
Interessante quindi la buona idea di De Capitani di lasciare gli attori uomini quasi senza cambi di trucco nella variazione dei due o più personaggi che ciascuno interpreta, quasi a significare che, pur nelle loro diversità identitarie, essi rimangono molto simili a dei prototipi comuni, frequenti, invarianti. Corposa la “gnoranza” con cui Francesco Acquaroli colora il suo datore di lavoro, un Briatorino d’acqua bassa, che apre la recita e aiuta subito ad entrare in un universo ruvido, spesso, e di conflitto fra caratteristiche umane quasi “di genere”. Pur andando al di là di letture gender specific di sorta, De Capitani spinge l’allestimento verso interessanti riflessioni su quella che è l’indole sociale, la capacità delle donne di leggere con più completezza e sincerità, prima di tutto interiore, il mondo che ci circonda. E questo punto di vista, ove effettivamente fosse un obiettivo del regista, ci troverebbe in buona sostanza concordi.
suono di Giuseppe Marzoli