ALESSIO DEGIORGIS | Chiacchierato e chiassoso, l’agognato Oscar come miglior attore conferito a Leonardo Di Caprio è stato, da molti, ritenuto discutibile. Conquistato a seguito di una prova d’attore minimale, quasi interamente riassunta da sommessi grugniti e respiri affannosi, il clamore mediatico suscitato da “The Revenant” ha rubato la scena a recitazioni forse più meritorie. È il caso di Eddie Redmayne che in “The Danish Girl” (2015) ha interpretato il pittore Einar Wegener. Il corpo androgino dell’attore racconta di una nervosa transizione. La vicenda, ospitata anche da un romanzo di Ebershoff, racconta dell’urgenza di Einar di diventare Lili. Un dramma privato, incominciato con la leggerezza di un gioco a due, che finisce per stravolgere gli equilibri di una coppia (Einar e Gerda, la moglie, anch’essa pittrice). Per la cronaca, il primo caso di riassegnazione di genere mediante intervento chirurgico.
Copenaghen, 1926. I colori della città si specchiano placidi sulle acque del porto. Di gran lunga più inquieto lo sguardo di Einar che scruta se stesso allo specchio. Lui, paesaggista apprezzato, si avvede, con crescente insofferenza, di quanto il proprio corpo non corrisponda all’immagine intima, all’Io femmineo, che ha conversato silente nell’animo per anni. “Stato confusionale di identità”, diranno i medici più indulgenti, ignorando così la consapevolezza del pittore di essere “palude”, come ammette a Gerda, l’unica in grado di comprendere la trasformazione del paesaggio interiore del marito. Tom Hooper, autore già premiato per “Il discorso del re”, si affida a una regia classica, capace di controllare il crescendo drammatico della narrazione. La linearità di questo biopic si rivela, in fondo, croce e delizia della pellicola. Da un lato avvicina il grande pubblico a un tema controverso, dall’altro, la rappresentazione non sembra capace di riflettere appieno le scosse e l’intricata complessità della vicenda. “The Danish Girl” è solo l’ultimo episodio di una storia, quella del cinema transgender, dal quale si distanzia, oltrepassando i confini dell’underground e approdando a una produzione mainstream.
Francoforte sul Meno, 1978. Tonalità più dolenti accompagnano la confusione di Erwin/Elvira, protagonista di “Un anno con 13 lune” (1978). Fassbinder, rielabora sofferenze private con furia inaudita. Il film, girato in pochi giorni, si compone di sequenze oniriche e disperate. La diversità come stigma, un’espiazione protratta che non conosce momenti di conciliazione. A dispetto del titolo, non sono rimproverate agli astri le ragioni dell’infelicità e dell’esclusione. Elvira ha rinunciato ad essere Erwin, molto prima che la spettatore s’interessasse a lei. A differenza di “The Danish Girl”, il cambio di sesso non è il motore del film e tantomeno costituisce il culmine della narrazione. Si tratta piuttosto di una premessa nel quale è prefigurato il destino sinistro di fronte al quale Elvira dovrà inchinarsi. Sperduta, di fronte all’indifferenza di grattacieli, simbolo della nuova Germania e di un potere finanziario pervasivo quanto discreto, la privata ricerca della felicità naufraga di fronte all’impossibilità di veder riconosciuto un ruolo nella vita di chi la circonda.
I due film sono riconducibili a sensibilità molto diverse, quasi in contrasto fra loro. E le immagini scavano questa distanza. Il corpo di Einar/Lili è flessuoso come un dipinto di Schiele mentre quello di Erwin/Elvira, impacciato e disarmonico, schernito da sguardi cattivi. Al primo sono dedicati lunghi primi piani civettuoli, il secondo è spesso, al contrario, confinato in piani d’insieme che ne amplificano la fragilità dissonante. Solo idealmente la morte precoce e presentita dei due personaggi li accomuna. Einar/Lili ed Erwin/Elvira sono specchi, in frantumi, che proiettano visioni sostanzialmente diverse. Due approcci alla vita irriducibili. Da un lato, una pulsione di vita così immediata e monomaniaca da esigere dalla trasformazione del proprio corpo felicità altrimenti negate. Nel caso del melò fassbinderiano, invece, un progressivo abbandono della forza vitale, incapace di competere con la fredda razionalità di un mondo ridotto a mattatoio. In entrambi casi, il corpo transgender è esibito nella sua alterità, in riferimento a una ricerca affannosa dell’identità che porta con sé motivazioni radicalmente distanti. Redatti con stili opposti, due capitoli ipotetici di una storia immaginifica dell’irrequietezza.