ALESSIO DEGIORGIS | Ogni autentica rivoluzione possiede, almeno inizialmente, un afflato religioso. Un desiderio di trasformazione che sfugge a definizione, alimentato dallo scontento per ingiustizie sempre ribadite. Martin Lutero, diretto verso il portale della cattedrale di Wittenberg con passo svelto e tesi polemiche sotto il braccio, era animato da sincero raccapriccio per la corruzione del proprio tempo. Tratti di quell’austerità nordica devono essersi conservati presso i principali firmatari di Dogma 95, Lars von Trier e Thomas Vinterberg, impegnati a denunciare le colpe di una Chiesa tanto influente quanto corrotta. Hollywood-Babilonia diventava oggetto delle rimostranze di un rinnovato spirito protestante. Con un decalogo s’invocava lo scisma, fustigandosi con leggi tanto severe da rivelarsi lettera morta per lo stesso legislatore.
È pur vero che al cinema scandinavo è sempre appartenuta una buona dose di autorevolezza pastorale. Ne sono prova l’ascetismo di Dreyer o la sofferta bellezza di molti capolavori di Bergman. Dogma, però, introduceva un elemento di novità. Non tanto prospettando un cinema alternativo rispetto a logiche miliardarie, quanto per la feroce provocazione diretta a un segmento dell’industria culturale e alla società che in esso si specchiava. Le rivoluzioni, tuttavia, raramente si attengono ai propri proclami e i rivoluzionari spesso lasciano biografie controverse. Così come Lutero finì per accordarsi con i principi tedeschi, scendendo a più miti consigli, le rivendicazioni di Dogma hanno perso slancio. Il voto di castità assomiglia, ora, a una stravaganza di gioventù, una cocciutaggine della quale il tempo ha avuto ragione. L’ondata che s’immaginava tsunami è in pieno riflusso, persino presso le coste danesi. Il recente successo internazionale del cinema di Winding Refn (Bronson, Valhalla Rising, Drive), che rielabora la migliore tradizione americana (Scorsese, Kubrick, Lynch) con equilibrio e perizia, racconta anche del naufragio della poetica di von Trier e seguaci.
Forse unica eccezione nella produzione di Dogma, “Festen” (Vinterberg, 1998) brilla a distanza di quasi vent’anni. Una metafora poliedrica, che anticipa, per certi versi, quello che sarà il futuro del movimento. Festa di famiglia, segnata da una tensione crescente che manca di poco la sua esacerbazione nel parricidio. Il legame di sangue contempla una somiglianza, per quanto sgradita, e la furia dei figli si arresta, rinunciando a un gesto estremo. Epilogo morale, l’impossibilità di condurre sino al termine premesse radicali, applicabile anche alle parabole dei fondatori di Dogma. Il caso von Trier è noto. Un cinema rannicchiato su se stesso, di compiaciuta polemica. La teorizzazione di un universo freddo, risultato di interazioni atomiche prevedibili, e nessun clinamen capace di modificare le traiettorie del destino. Non c’è dubbio che il regista, diventando Autore, si sia trasformato anche in padre tirannico.
Pretese di genitorialità limitate caratterizzano, invece, il lavoro di Vinterberg. Eppure, la crudezza di “Festen” si è rivista raramente. Dell’ortodossia di Dogma si è conservato il movimento di macchina ondivago e nervoso, sopravvive l’interesse per una narrazione dei conflitti interni a piccoli gruppi umani ma lo sguardo proiettato sulle cose è sostanzialmente diverso. In “Riunione di Famiglia” (2007), il dualismo padre-figlio conosce una prima possibilità di conciliazione, ne “Il sospetto” (2012), la distanza è azzerata, ipotizzando un padre finalmente affettuoso, a dispetto delle dicerie di paese. Infine, con “La comune” (2016), il regista prova a far rivivere la tensione che innervava felicemente il suo primo grande successo. Ma il tentativo non pare del tutto riuscito. Il maggior pregio è l’ennesima metafora, forse involontaria. Così come fallisce l’esperienza comunitaria dei protagonisti, così si è arenata, nello Jutland ma è verosimile che sia accaduto anche altrove, l’utopia di giovani cineasti arrabbiati.
hmm, da come scrivi sembrerebbe che chiunque faccia film in scandinavia debba per forza aderire al Manifesto. Ma forse ho male interpretato il tuo commento 🙂