ROBERTA ORLANDO | Anche in questa stagione teatrale che si avvicina al termine, l’eco di Cechov ha dato vita a nuove rappresentazioni, soprattutto a rivisitazioni in chiave contemporanea. Villa dolorosa di Rustioni ci ha fatto rivivere le Tre Sorelle, ma menzioniamo anche il ben riuscito Vanja della Compagnia Oyes.
Eppure l’Elfo, benché di teatro contemporaneo sia da sempre portavoce, sceglie di riportare sul palco, a dieci anni dal debutto (e per la prima volta nella sede di corso Buenos Aires), un classico di Cechov: Il Giardino dei Ciliegi, ultima opera dell’autore.
Ferdinando Bruni, che questa volta cede il suo ruolo di Lopachin (a un ottimo Federico Vanni) e si concentra sulla regia, ce lo propone così: con un testo fedele, di cui ha curato anche la traduzione, con costumi eleganti e con una scenografia che sembra pensata per creare spazi (anche non visibili) e accogliere un cast di 12 attori senza mai appesantire lo spazio scenico. Le azioni, che si svolgono principalmente nella stanza dei bambini, continuano anche fuori dalla villa e in altre stanze, anche se ne vediamo solo le porte e le luci (di Nando Frigerio) che penetrano dalle finestre. Un’atmosfera calda, come dev’essere quella di una casa che è luogo di riunione per una famiglia non sempre unita, luogo di ricordi nostalgici e ultimo appiglio prima della rovina e del cambiamento. I mobili e i quadri dei primi due atti si diradano negli ultimi due, cedendo il posto a sedie e bauli; pochi oggetti che simboleggiano una decadenza economica e uno spostamento, fisico e psicologico. Il suono di un pendolo è un frequente sottofondo, e risalta ancor più nei diversi momenti di pausa, come dei fermo-immagine, che il regista inserisce soprattutto nella prima metà dello spettacolo, per mettere a fuoco i momenti più rilevanti. Ed è di nuovo un effetto sonoro (se ne cura Jean-Christophe Potvin) che ci annuncia, nell’ultimo atto, l’abbattimento dei ciliegi del giardino, per mano di Lopachin, il nuovo proprietario della villa.
Questo testo è lo specchio della Russia di inizio Novecento, quando la società soffriva la decadenza economica e politica, mentre la borghesia cavalcava l’onda dell’industrializzazione acquisendo sempre più potere. Ciò che però caratterizza la versione di Bruni è una tangibile leggerezza, concessa da un lavoro corale sorprendente e dalla forte e precisa caratterizzazione di ogni personaggio. Una leggerezza difficile da intravedere in un’opera che lo stesso Stanislavskij, dirigendo la prima assoluta a Mosca nel 1903, aveva letto come dramma sociale, provocando il disappunto di Cechov che l’aveva concepita come una commedia.
Nel cast di questo Giardino rivediamo gli “evergreen” dell’Elfo: Ida Marinelli (nel ruolo di Ljubov), che cavalca bene l’incostanza emotiva di un personaggio passionale quanto fragile; il fratello Gaev, interpretato da Elio De Capitani, in una delle sue migliori interpretazioni; Elena Russo Arman (Varja) e la sua indiscussa intensità interpretativa. Tutte ottime prove attoriali quelle degli altri attori in scena, con qualche stonatura nel caso di Liliana Benini (Anja) e Carolina Cametti (Duniaša), all’interno della spontanea sintonia e della coerenza scenica degli altri interpreti.
IL GIARDINO DEI CILIEGI
di Anton Cechov
regia di Ferdinando Bruni
con Ida Marinelli, Elio De Capitani, Federico Vanni, Elena Russo Arman, Luca Toracca, Nicola Stravalaci, Corinna Agustoni, Carolina Cametti, Fabiano Fantini, Vincenzo Giordano, Marco Vergani, Liliana Benini
luci di Nando Frigerio
suono di Jean-Christophe Potvin
produzione Teatro dell’Elfo